Francesco Sabatini, presidente onorario dell’Accademia della Crusca, è la persona che nel 2021 ha coniato la parola Dantedì, che ha battezzato di lì in poi il 25 marzo proclamato dal Consiglio dei ministri Giornata nazionale di Dante. Le domande, che gli abbiamo rivolto in occasione dell'ufficializzazione del nome Dantedì, e le sue risposte spiegano tutto quello che c'è da sapere.
Com’è nata?
«L’idea della giornata è di Paolo Di Stefano, giornalista del Corriere della sera. “Dantedì” mi è venuto conversando con lui: volevo un nome solo, originale, comprensibile a tutti e in grado di scalzare il dante-day che desideravo evitare: come martedì è il giorno di Marte, il 25 marzo sarà il giorno di Dante, che veneriamo come una “divinità” linguistica e culturale».
Che fare di meglio per celebrare un creatore di tante parole italiane?
«Ogni giorno, senza saperlo, usiamo parole inventate da Dante: “inurbarsi”, per esempio. Oppure “alto mare” che si trova nel canto di Ulisse per dire mare profondo dal latino di Virgilio. Senza l’Inferno, non diremmo che il traffico di Roma è una “bolgia”: la parola già esisteva, voleva dire “sacco”, Dante per primo l’ha adoperata per indicare un luogo di confusione e disagio. A proposito di parole le racconto una “scoperta” recente. Ho sentito dei muratori in Abruzzo chiamare un particolare tipo di martello bipenne “maleppeggio”, perché se ti colpisce da una parte ti fa male, dall’altra ti fa peggio. Il nome mi ha ricordato un verso di Dante in cui il male è il peccato, il peggio la dannazione eterna. Mi pareva improbabile una connessione di qualche tipo, poi ho scoperto che Dante aveva preso il concetto da San Tommaso. Anche i muratori abruzzesi potrebbero averne sentito parlare, nei secoli, attraverso le prediche in Chiesa. Dobbiamo ancora scavare per capire a quanto ci lega a Dante».
È per questo che lo chiamiamo padre?
«Ci ha dato - non da solo - una lingua, in senso storico: è il maggior apporto che si possa dare a una società. Senza il linguaggio non potremmo conoscere né costruire una comunità sociale capace di produrre. Di più, senza una lingua scritta la conoscenza non si fissa. Dante c’entra in tutto questo anche perché ha esplorato il cammino della conoscenza. Ha inventato il percorso nei tre mondi della Commedia per dire che per arrivare a quello che chiama Dio bisogna conoscere: è stato per il suo tempo un grande difensore della conoscenza».
Pare che sia sempre più difficile leggere Dante, c’entra lo sbiadire della cultura cristiana di base?
«Sì, me ne sono reso conto: manca soprattutto la cultura biblica, forse perché nei Paesi cattolici l’Antico Testamento non si legge quanto nei Paesi protestanti. Va un po’ meglio con il Vangelo. Si riscontra un problema simile con i riferimenti ai miti classici. Ai miei tempi si leggeva tutto Dante al liceo, oggi sarebbe un errore, si trascurerebbero troppe altre cose. La scuola non può approfondire tutto, deve dare capacità di leggere e comprendere, curiosità di apprendere, per portarsele in tutta la vita. Ma nella scuola di massa si dovrebbe ripensare l’impostazione collettiva del modo con cui si insegna a leggere e scrivere. Le scienze neurolinguistiche danno indicazioni utili, ma la formazione dei docenti della primaria non le prevede».
Perché è importante la ricorrenza del 25 marzo?
«Lo è per la società italiana che ha bisogno di un rinforzo di fiducia. Leggendo un discorso tenuto nel 1888 da un bibliotecario, abruzzese come me, ho trovato un’espressione modernissima: “Dobbiamo capire che per secoli le grandi potenze hanno giocato a pallone con il nostro Paese”. Io spero che questa giornata - cui vorrei che le scuole dedicassero una settimana per prepararsi a una celebrazione consapevole, in tutte le forme anche le più leggere - serva a sapere come siamo arrivati a essere quello che siamo, senza boria, senza sovranismi sia chiaro, per capire quello che ancora possiamo fare di buono: se non vogliamo tornare a essere più quel pallone, dobbiamo partecipare al dialogo costruttivo di cultura con il resto del mondo».