Il disegno è da sempre la passione di Gabriele Dell’Otto. Avendo un padre con l’amore per il fumetto, fin da piccolo ha divorato centinaia di giornalini e ha cominciato a familiarizzare con i protagonisti di tante avventure. Nella sua carriera ha poi attraversato numerose forme espressive: fumetti, cover di videogiochi, illustrazione di libri, il calendario dell’Arma dei Carabinieri, locandine di eventi importanti come quella del Lucca Comics&Games del 2014. Ma è alla realizzazione dei fumetti di supereroi che deve le sua celebrità: collabora con le principali Major statunitensi, è uno dei più importanti disegnatori al mondo che firma le copertine per Marvel e Dc, lavora per progetti legati alla saga di Star Wars. Ora però si sta cimentando in un’altra impresa che, dice, «è solo apparentemente lontana dal mondo dei supereroi»: un’edizione illustrata della Divina Commedia, di cui è appena stato pubblicato il volume dedicato all’Inferno, scritta da Franco Nembrini e con la prefazione di Alessandro D’Avenia (Mondadori).
Qual è la cifra che accomuna Batman, Spiderman, Capitan America e gli altri supereroi che godono di così grande popolarità?
«Il desiderio di grandezza, di essere “super”. Lottano contro le ingiustizie del mondo, vogliono superare la banalità della vita quotidiana, concepiscono l’esistenza come una lotta, una battaglia per l’affermazione della verità. In questi personaggi si esalta la tensione dell’uomo a dare la vita per qualcosa di grande. In un’epoca in cui prevalgono la mediocrità e il cinismo, è qualcosa che affascina. Ma c’è un altro aspetto molto attuale, nel mondo dei supereroi».
Quale?
«Nelle loro storie si rintraccia spesso un fondo di insoddisfazione che permane anche al termine di una grande impresa. È come se dovessero fare i conti con l’evidenza che manca sempre qualcosa, che da soli non riescono a porre rimedio ai mali del mondo, hanno bisogno del contributo di altri e di altro per fronteggiare il cattivo di turno. Dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 mi chiamarono dagli Stati Uniti chiedendomi un’illustrazione che facesse da memoriale su ogni testata in uscita quel mese. Io ero traumatizzato da quanto era successo e indeciso se accettare la proposta, perché inizialmente l’idea di fare un disegno su una tale tragedia mi sembrava futile e temevo di sminuire l’accaduto. Poi, di fronte alla commozione e alla mobilitazione popolare che vedevo in televisione da New York, ho capito che potevo proporre un’illustrazione in cui il supereroe rendeva omaggio a coloro che si erano mossi per portare aiuto, come poliziotti, pompieri, medici e anche la gente comune: era l’evidenza che il male non ha l’ultima parola, che il desiderio di bene presente nel cuore dell’uomo riesce a manifestarsi in qualsiasi circostanza, anche la più avversa».
Lei si sta cimentando in una nuova avventura, a prima vista poco popolare e apparentemente lontana dalle atmosfere dei supereroi: illustrare personaggi e situazioni della Divina Commedia dantesca commentati da Franco Nembrini, insegnante e divulgatore. Cosa c’è all’origine di questa sua scelta?
«Ci sono un incontro inaspettato e illuminante, e una decisione conseguente. Nel 2013, ascoltando in una parrocchia di Roma una conferenza di Nembrini, fui colpito dal suo modo originale, fuori dagli schemi, con cui mi rendeva partecipe del cammino di Dante facendomi immedesimare nell’avventura umana del poeta, presentando come “uno di noi” un personaggio che alle medie non mi aveva minimamente affascinato. I suoi versi diventavano qualcosa di vivo, parlavano al cuore, una sensazione lontana anni luce dalla noia mortale che avevo provato a scuola. Il giorno dopo cominciai a disegnare quello che avevo visualizzato nella mia mente la sera precedente, poi lo misi sulla tela, feci vedere i primi lavori a Nembrini e gli prospettai una collaborazione: tu commenti i cento canti della Commedia, io li illustro. Lavoriamo al progetto da tre anni, l’intenzione è aiutare tutti a vedere quello che Dante vede nell’Inferno, a viaggiare insieme con lui e dentro di noi. A fine ottobre è stato pubblicato il primo volume di una trilogia, dedicato all’Inferno, nei prossimi due anni usciranno quelli sulle altre due cantiche».
L’Inferno è il regno del male: c’entra qualcosa con l’ambiente in cui si muovono i supereroi dei fumetti? E come è cambiato il suo stile illustrativo?
«Più Dante scende negli inferi, più ci fa conoscere l’essenza del male, l’impotenza e il limite dell’uomo e la necessità di Qualcuno che lo salvi dall’abisso. Le immagini devono acquisire una maggiore forza evocativa e il mio lavoro si è fatto più introspettivo e insieme più complesso. Quando cominciai a cimentarmi su questo terreno la mia seconda figlia, che aveva cinque anni, vide una tela in cui raffiguravo il volto di Lucifero e disse: “Babbo, è bello ma non dovevi farmelo vedere perché stanotte di sicuro non dormirò”. Ho capito che l’immagine “funzionava” perché, seppur affascinante nel complesso, provocava lo stesso sentimento di repulsione provato da Dante quando incontrò Lucifero. Favoriva quell’immedesimazione che Nembrini riesce a evocare quando spiega la Commedia alla gente comune. Per questo ha successo, e smentisce il luogo comune sui giovani abulici e disinteressati. Se gli proponi qualcosa che accende il loro interesse, qualcosa che c’entra con la loro umanità, i giovani ci stanno».
Lei ha molti fan, soprattutto nel pubblico giovanile. Sente una responsabilità nei confronti di questo mondo?
«Il percorso sulla Commedia mi rende più consapevole di cosa significa fare l’illustratore e mettere a frutto i propri talenti. Anche nel mio lavoro con i supereroi, che continuo ad amare moltissimo, al gusto personale si è aggiunta un’attrattiva che nasce dal rapporto con i ragazzi e dalla scoperta del valore che le mie opere possono avere per loro, attraverso un percorso legato alla bellezza. Oggi più che mai il fumetto e le immagini in generale hanno la grande responsabilità di non proporre un’estetica fine a se stessa, ma di rappresentare storie capaci di parlare del mondo in cui viviamo e di entrare nel cuore delle persone. Immagini create più per servire che per vendere».