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A 50 anni dall'omicidio
 
Credere

Gemma Calabresi Milite: «Perdonando ho ritrovato la speranza»

12/05/2022  «È stato un cammino lungo ma ho sentito che potevo farcela e che Dio avrebbe rispettato i miei tempi», dice la vedova del commissario Calabresi, che ha trasformato il dolore in amore per la vita (di Donatella Ferrario)

Cinquant’anni fa, la mattina del 17 maggio 1972, veniva assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi. Era appena uscito di casa per andare al lavoro in questura, aveva salutato la moglie Gemma, incinta, e gli altri due bambini piccoli, Mario e Paolo. Era rientrato pochi istanti dopo per cambiarsi la cravatta. L’aveva scelta bianca e la moglie l’aveva un po’ canzonato: «Stavi bene anche prima!», e lui: «Questo è il simbolo della mia purezza», aveva risposto serio. Erano le sue ultime parole: davanti a casa lo attendevano tre colpi di pistola alle spalle. Da allora, dicevamo, sono trascorsi cinquant’anni, durante i quali Gemma Calabresi Milite è precipitata in un pozzo scuro da cui è riuscita a tirarsi fuori con l’aiuto di Dio. Vedova appena venticinquenne, ha vissuto giorni pieni di dolore, addormentandosi la sera come una bambina nel lettone accanto alla mamma Maria, con un unico sollievo di cui oggi si vergogna: immaginava di vendicarsi. Qualche mese dopo dà alla luce, accompagnata dalla madre, il figlio Luigi.

Il dono della Fede

«Ricordo il momento in cui ho sentito per la prima volta che Dio veniva da me: avevo appena saputo della morte di Gigi da don Sandro, il prete che ci ha sposati. Sono sprofondata nel divano, ogni cosa non aveva più senso, gli oggetti acquistati insieme a mio marito, i mobili… poi all’improvviso è arrivata una strana pace interiore, come se vedessi e ascoltassi tutto ciò che accadeva da lontano e sentissi di essere accompagnata. Ho provato una sensazione di forza, assurda in quel momento. Ho avuto la certezza che ce l’avrei fatta e ho perfino chiesto a don Sandro di recitare un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino. Non veniva da me, lo so per certo: era la presenza di Dio.

È in quel momento che ho ricevuto il dono della fede. I miei genitori erano credenti: eravamo sette fratelli, ci hanno educato al cattolicesimo. Ero religiosa ma per abitudine e per far contenti i miei. Andavo a Messa, seguivo con convinzione, ma era una fede che non percepivo ancora come mia. Poi è stato diverso, perché la fede era presente in ogni istante della mia giornata». Una fede che non toglie il dolore, certo, ma, come dice Gemma, «lo riempie di significati» e, soprattutto, regala la speranza. «Ho avuto molti anni bui, di tristezza e pianti: per tirarmi su, pensavo a quell’esperienza meravigliosa e ripartivo. Ma ero ancora lontana dal perdono: mi sembrava quasi di fare un torto a mio marito». Gemma Calabresi Milite parla con una voce chiara che trasmette tanta passione: ha scritto il libro La crepa e la luce (Mondadori) con uno scopo: testimoniare che è sempre possibile rialzarsi e ricominciare, amare la vita, essere felici e credere ancora negli esseri umani. Ma è un percorso difficile, ci si alza e si ricade.

La provocazione dei piccoli

  

«Fu mia mamma a pensare al necrologio per Gigi: scelse la frase di Gesù, “Padre, perdona loro, perché non sanno ciò che fanno”. Quella frase è stata il lievito. Mi ricordo quando il cammino ha iniziato a essermi chiaro. Per anni avevo lavorato nell’azienda tessile dei miei genitori: dopo la morte di mio marito avevo necessità di stare vicina ai miei figli. È stata poi mia mamma, che ci ha sempre visto lungo, ad aiutarmi. Un giorno è arrivata e mi ha detto: “Gemma, ho trovato il lavoro per te”». Prosegue nel racconto: «Era un impiego come insegnante di religione alle scuole elementari: è stata una svolta, ho passato l’esame, ho iniziato e ho insegnato per oltre trent’anni. Lì ho conosciuto il mio secondo marito, Tonino Milite, ho avuto da lui il quarto figlio, Uber. A scuola insegnavo ai bambini a far la pace e mi dicevo: parlo di ciò che non so fare. Entravo in crisi, mi sembrava di tradirli. Ricordo un bambino che un giorno mi ha chiesto: “Perché quando uno muore si dicono di lui solo cose belle? Muoiono solo i buoni?”. Gli ho risposto che di una persona dobbiamo ricordare gli esempi e i gesti positivi: saremo giudicati per l’amore che abbiamo dato al nostro prossimo e non per i nostri errori».

Come una rivelazione

Continua: «Mi sono accorta però che la mia vita andava contro quella frase: anche gli assassini di mio marito non saranno stati solo quella cosa lì. Saranno stati buoni padri, mariti, amici, avranno aiutato gli altri: improvvisamente ho ridato loro umanità. Da quel momento non sono più scivolata indietro: è come se fossi ripartita dal necrologio scelto quel giorno da mia mamma. Gesù che parlava da uomo e si rivolgeva al Padre per il perdono, lasciando all’uomo il tempo del cammino. Si vede che lo Spirito Santo mi vuole bene. Mi sono sentita leggera e liberata, felice. Ho pensato: Gesù l’ha già fatto al posto mio, io avrò i tempi del mio cammino, ma non sono sola». Riprende a raccontare: «I figli non hanno perdonato, né lo pretendo». «Il cammino è personale. Sono diventati possibilisti, a volte mi dicono: “Forse, mamma, alla tua età ce l’avremo fatta anche noi”. Comunque sono diventati uomini che amano la vita, hanno voltato pagina e non hanno rancori e odio. Questo è già tanto».

La testimonianza

  

A un certo punto Gemma decide di testimoniare agli altri il suo percorso: «Ho capito che se condividevo mi sarei rinforzata. Era una richiesta di aiuto, un dare e avere. Raccontavo la mia storia e in tantissimi intervenivano, mi si avvicinavano per condividere le loro difficoltà e crucci. Senza gli altri non si va da nessuna parte: la condivisione delle gioie e dei dolori ci rende reciprocamente più forti, ci fa sentire meno soli. In tutti questi anni ho ricevuto tanti pensieri, lettere, carezze, abbracci da sconosciuti: ho saputo che moltissimi hanno pregato per me e la mia famiglia. La preghiera mette in comunione con Dio e ci mette in fratellanza tra di noi: è una cosa bellissima. Io dico sempre: “Non ce l’ho fatta. Ce l’abbiamo fatta”».

Chi è

ETÀ 76 anni

PROFESSIONE Insegnante di religione in pensione

FAMIGLIA Quattro figli

FEDE Riscoperta con l’uccisione del marito Luigi

 

Una donna in cammino

 

Aveva ricevuto un’educazione cattolica ma la fede, sincera e personale oltre alle convenzioni sociali, l’ha trovata quando il dolore avrebbe potuto prostrarla irrimediabilmente. È stato in quel momento che Gemma Calabresi Milite ha sentito la presenza di Dio e la sua vita, pur provata dalla fatica, dalla sofferenza e dalla depressione, ha imboccato nuovamente la via della speranza. Così nel libro biografico La crepa e la luce (Mondadori) lancia un messaggio universale: anche se è un percorso difficile, anche se ci si alza e poi spesso si ricade, nella vita è sempre possibile ricominciare.

 
 
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