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mercoledì 16 ottobre 2024
 
l'intervista
 

Gemma Calabresi: «Volevo vendicarmi ma Dio mi ha condotto sulla strada del perdono»

17/05/2022  Cinquant’anni fa l’omicidio del commissario Luigi Calabresi. Intervista alla vedova che ha raccontato la sua storia nel libro "La crepa e la luce": «Ebbi quasi un’illuminazione. All’obitorio alcuni ragazzi lanciavano insulti ma ricevevo migliaia di lettere e regali per i miei figli. Spesso mi sono arrabbiata con Gigi perché mi aveva lasciata sola. Ecco come m’immagino l’incontro con lui»

C’è un equivoco che è anche la tentazione di molti telereporter i quali, a cadavere caldo, mettono un microfono davanti alla bocca dei parenti delle vittime dei delitti più efferati chiedendo, soavi: «Ha perdonato?». L’equivoco nasce forse da un Vangelo più letto che orecchiato, o riletto secondo certe categorie del “politicamente corretto” che oltre ad essere retoriche sono anche irrealistiche, e quindi disumane. Per perdonare i carnefici di suo marito, il commissario Luigi Calabresi, Gemma Capra ci ha messo cinquant’anni. «E ancora non è finita», sussurra questa donna alla quale il 17 maggio 1972 un commando di Lotta Continua strappò per sempre il suo “Gigi” lasciandola da sola a 25 anni con tre figli, di cui uno ancora in grembo.

Se ora Gemma Calabresi Milite ha deciso di raccontare tutto nel libro La crepa e la luce – Sulla strada del perdono. La mia storia (Mondadori) è perché c’è in lei una straordinaria fiducia nella vita, perché crede fino in fondo, da cristiana vera, che cambiare in meglio è possibile, per tutti. Perché sa che occorre purificare la memoria per liberarsi dal passato, per poi protendersi in avanti, come esorta San Paolo, senza fardelli opprimenti sulle spalle. Ricominciare da capo, aprirsi al futuro, consapevoli che in ciascuno di noi si annida l’assassino ma anche il santo potenziale. Grano e zizzania insomma, come nel libero campo del mondo.

Tutte queste cose Gemma le ha comprese strada facendo, tra giorni di buio opprimente e altri d’incoraggiante speranza. Ma tutto questo, racconta con un sorriso radioso, non sarebbe stato possibile senza quell’incontro misterioso con Colui che, in questi anni, l’ha presa per mano e l’ha guidata evitando di farla naufragare sugli scogli del rancore e dell’odio.

Mi racconti di quest’incontro.

«Quella mattina del 17 maggio dopo che spararono a Gigi arrivò a casa il signor Federico, un amico di papà che abitava di fronte a casa nostra. Era impietrito, pallido. Capii subito che era successo qualcosa di grave. In questura non rispondeva nessuno. Poi arrivò don Sandro, il parroco di San Pietro in Sala. “Dimmi la verità”, lo implorai. E lui senza muovere le labbra mi disse che era morto. Mi accasciai su divano, avevo addosso un senso di devastazione totale. Guardai la casa, gli oggetti che avevamo comprato insieme e tutto, di colpo, mi parve senza senso».

Poi cosa avvenne?

«Ad un tratto sentii dentro di me un’assurda pace, una forza interiore incredibile. Avvertii come dei flash che non ero sola, che ce l’avrei fatta. Poi dissi a don Sandro: “Recitiamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino che avrà sicuramente un dolore più grande del mio”».

Che lettura ha dato, dopo, di quest’episodio?

«Era il modo che Dio aveva scelto per indicarmi la strada. Io avevo 25 anni, ero giovane, amavo ballare, ascoltare i Beatles e i Rolling Stone. In quell’istante preciso ho sentito forte la presenza di Dio e ho ricevuto da Lui il dono della fede. Prima andavo a Messa, recitavo le preghiere, facevo volontariato ma era una religiosità più di tradizione che di convinzione».

È l’esperienza di Giobbe che al culmine della prova rivela: “Prima io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono”.

«È stata un’illuminazione potentissima che mi ha accompagnato per tutta la mia vita, soprattutto nei momenti più dolorosi. Quando ero scoraggiata e mi sembrava di toccare il fondo mi rifacevo, e mi rifaccio tuttora, a quella sensazione. Ho imparato sulla mia pelle che la fede non toglie il dolore e la sofferenza ma li riempie di significato, gli dà un senso, offre una prospettiva».

Il necrologio scelto per la morte di suo marito era una delle ultime parole di Gesù in Croce: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Lo scelse lei?

«No, non ne ero capace. Ci pensò mia madre, donna di grande fede e apertura mentale. Io il senso di quel necrologio l’avrei capito molto dopo perché all’inizio volevo solo vendicarmi».

Qual è il significato?

«Se ci fa caso, Gesù chiede al Padre di perdonare i suoi carnefici. Egli, da uomo, si rende conto di non poter perdonare subito. Con quelle parole Dio mi ha indicato la strada da percorrere. Subito dopo l’assassinio di Gigi io mi sono sentita alleggerita perché Dio aveva perdonato subito al mio posto e io ho potuto compiere il mio cammino con calma. Cammino che poi ho voluto condividere con altre persone attraverso le testimonianze e, ora, anche questo libro. Era giusto spezzare quella catena di odio e violenza con parole d’amore. L’arcivescovo di Milano, il cardinale Colombo, ai funerali disse che il necrologio era un fiore posato sul sangue di Gigi che non sarebbe mai appassito e avrebbe dato frutto».

È andata così.

«Quelle parole mi sembrarono anche un omaggio a mio marito perché lui era molto credente. Una settimana prima dell’omicidio venne a trovarci la mia maestra delle elementari e quando era andata via, vedendolo provato, gli disse: “Stai attento Gigi, riguardati”. E lui rispose con le parole del Salmo: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla”».

Si preparava alla morte?

«Era molto cambiato, secondo me se l’aspettava. Mi diceva sempre di guardarmi alle spalle quando uscivo di casa anche se lui la mattina dell'omicidio non l'ha fatto ed è stato colpito da dietro. Nella coppia sono sempre stata io quella più trainante, anche nella fede. Io avevo l’esempio di mia madre che era una donna credente ma molto aperta e non giudicava. Gigi invece aveva ricevuto un’educazione più bigotta. L’ultimo Natale insieme mi regalò una borsa bellissima avvertendomi che il vero dono era all’interno. Era una lettera che aveva scritto sul senso del Natale e della famiglia. Quando la lessi mi mise quasi ansia, come se nel percorso di fede mi avesse superato. Quando era scoraggiato per il suo lavoro gli dicevo: “Lo hai scelto tu, per te è una missione, chiedi aiuto a Dio”».

La copertina del libro e, a destra, l'incontro del 2009 tra Gemma Calabresi e Licia Pinelli al Quirinale (Ansa)

Sulla copertina del libro c’è la foto del vostro matrimonio.

«Ci siamo sposati il 31 maggio 1969, la prima data in cui don Sandro aveva la chiesa libera. Al ritorno dal viaggio di nozze in Spagna aspettavo già Mario. Abbiamo fatto tutto in fretta. C’era un motivo».

Ci sono stati momenti in cui ha pensato di non farcela?

«Il dolore più grande era vedere i miei figli tristi. Dopo l’omicidio di Gigi, Mario era serio, non rideva mai e mi chiedeva continuamente quando sarebbe tornato papà. Ciononostante, ho scelto di non crescerli nell’odio e nel rancore perché sono sentimenti che sembrano offrire una soddisfazione immediata ma, in realtà, divorano tutto. Mi sarei persa le cose belle dei miei figli, i loro successi, un tramonto, un’amicizia. Odiare per me e la mia famiglia sarebbe stato, paradossalmente, un fardello ancora più pesante da portare dell'omicidio».

Al funerale c’erano moltissime persone.

«Sì. Subito dopo l’omicidio ricevevo centinaia di lettere di solidarietà. Alcune persone mi mandavano i regalini per bimbi: un bavaglino per Mario, una tutina per Paolo, una copertina della culla per Luigi che doveva ancora nascere. La maggioranza silenziosa degli italiani mi dimostrava affetto e questo per me è stata una grande consolazione».

Ricevette però anche ostilità e disprezzo.

«Quando andai all’obitorio, fuori c’erano dei ragazzi che inveivano contro mio marito e lanciavano insulti. Mio fratello Dino mi tappò forte le orecchie, così non sentii nulla, solo il battito del cuore».

Quando arriva la svolta nel cammino del perdono?

«Un giorno un mio alunno mi chiese: “Maestra, perché quando le persone muoiono diventano tutte buone? Quindi muoiono solo i buoni?”. Risposi che di ogni persona noi dobbiamo ricordare l’esempio positivo che ci ha lasciato non i suoi errori. Mi fece riflettere moltissimo quella domanda. Fino a quel momento avevo pensato agli assassini di mio marito solo come assassini. Poi mi dissi: “Che diritto ho io di inchiodarli per tutta la vita al crimine che hanno commesso, magari saranno dei buoni padri di famiglia”. Ho fatto l’opposto di quello che avevano fatto loro con Gigi, cercando di ridare loro un’umanità».

Come andò l’incontro con Licia Pinelli.

«Quando Mario mi disse che il presidente Napolitano voleva che la incontrassi mi è mancato il fiato. Poi ho pensato che anche in quella casa un giorno non è più rientrato il papà. Chi più di noi è uguale, abbiamo lo stesso dolore che ci accomuna. Quando l’ho vista al Quirinale le sono andata incontro. Ci siamo guardate, ci siamo date la mano, ci siamo abbracciate e lei mi ha detto: “Peccato non averlo fatto prima”. È stata una frase bellissima. Napolitano attraverso il nostro incontro desiderava una pacificazione davanti al Paese. Noi lo abbiamo fatto con amore anche se la politica e la stampa hanno sempre voluto contrapporci e hanno fatto di tutto per strumentalizzarci».

Cosa le ha fatto più piacere in questi cinquant’anni?

«Le sembrerà strano: la medaglia d’oro al valor civile alla memoria di Gigi conferita dal presidente Ciampi nel 2004. Io so chi era mio marito ma con quel gesto finalmente lo Stato riconosceva pubblicamente l’onestà e innocenza di Gigi davanti al Paese. Ciampi mi disse: “Signora, abbiamo ritrovato la memoria”».

Il commissario Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 a Milano. A destra, un momento dei funerali (Ansa)

Nel 1988 per l’assassinio di suo marito furono arrestati gli ex militanti di Lotta continua Marino e Bompressi, e gli ex dirigenti Sofri e Pietrostefani.

«I processi sono stati logoranti. Mio padre aveva raccolto tutta la rassegna stampa cartacea su mio marito. Un giorno ho preso gli scatoloni che stavano in garage e ho buttato via tutto. Non voglio rileggere nulla anche perché, soprattutto in passato, bastava un articolo di giornale perché sprofondassi nella disperazione e nel rancore».

Molti intellettuali italiani firmarono il manifesto contro il “commissario torturatore”.

«Alcuni mi hanno chiesto scusa, altri no. Per me non ha più importanza, sono in pace con tutti».

Cosa ha provato quando la Francia ha avviato l’estradizione di Pietrostefani?

«Un senso di grande giustizia perché finalmente la Francia con una svolta notevole riconosceva le sentenze italiane. Però nessuna gioia o soddisfazione. Dopo cinquant’anni, anche lui è un uomo anziano e molto malato. Saperlo in carcere non aggiunge nulla».

Lei ha incontrato anche il pentito Leonardo Marino.

«È un uomo che ha sofferto molto, aveva studiato dai salesiani, veniva da una cultura cattolica. Però non reggeva più questo senso di colpa, aveva il terrore che i suoi figli lo scoprissero da qualcun’altro e non da lui. All’inizio, quando decise di parlare, fu maltrattato e denigrato. Quando l’ho incontrato gli dissi, prima di iniziare a parlare, che gli portavo il mio perdono e mi congedai con queste parole: “Sappia che quando una persona dice la verità non tradisce mai”».

Luca Sofri.

«Mai avuto rapporti. Non l’abbiamo mai cercato e lui non ci ha mai cercato».

Nel libro parla di Tonino Milite, il suo secondo marito, con grande affetto.

«Un uomo straordinario e generoso. Ha amato i figli miei e di Gigi in maniera splendida. Mi diceva: “Sono gli altri che mi ricordano che non sono miei perché io me ne dimentico”. Gli ha anche dedicato diverse poesie».

Chi crede sa che la morte non è l’ultimo capitolo di quel libro misterioso che è la vita di ciascuno. Come si immagina l’incontro con Gigi, dopo?

«Dopo la sua morte ogni tanto mi arrabbiavo e gli dicevo: “La fatica la faccio io, tu sei lì nella felicità eterna, che ti sei meritata tutta, mentre io sono qui con i bimbi piccoli da crescere e un dolore enorme”. Spero che mi dica che sono stata brava».

 
 
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