Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
lunedì 10 febbraio 2025
 
 

Generazione Goldrake & Co.

30/09/2010  Lady Oscar compie trent'anni e Roma la celebra. Hallo Spank giganteggia sui gadget più disparati. Ecco come i cartoni giapponesi hanno rivoluzionato la cultura di chi era bambino tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta

Erano gli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, eravamo bambini e fummo i primi ad affrontare l’altro mondo, che ci arrivava in casa dal piccolo schermo. Quando questa cosa sarà un tema da sociologi ci chiameranno "generazione anime", pronuncia  anìme che non è anima ma la parola giapponese, adattamento dall’inglese animation, che indica i cartoni animati giapponesi.

Goldrake, Jeeg, Mazinga Zeta, Capitan Harlock, Heidi, Candy Candy, Lady  Oscar. Ne fummo travolti come da un’ondata perché erano nuovi, tanti, bellissimi. Almeno così sembrava a noi mentre i nostri genitori non esitavano a bollare come brutti quei disegni spigolosi ed essenziali, più statici degli Hanna e Barbera e dei Disney, ma soprattutto molto meno rassicuranti.

Avevamo dieci anni e lo schermo aveva smesso di raccontarci Bracco Baldo che cantava Clementine e Lupo de Lupis che prendeva un sacco di botte perché lui era un lupo tanto buonino ma finiva sempre per sbaglio nella favola del lupo cattivo. Nei cartoni giapponesi le botte volavano ma lasciavano i lividi e chi finiva in miniera sotto la frana non si rialzava un minuto dopo come Wile. E. Coyote.

E sì perché Candy, protagonista del primo memorabile melodrammone animato passato alla storia e alla memoria delle ragazzine d’allora, andava a far la cuoca per i minatori, diventava infermiera e crocerossina. Sullo sfondo la Londra vittoriana e l’America della prima guerra mondiale. Di diverso c’era che Heidi, Remy, Peline, Anna dai capelli rossi, tratti dai classici per ragazzi europei, Candy e Lady Oscar portavano con dirompente realismo i tormenti della vita vera dentro i cartoni.

Le favole di Disney  abitavano un mondo fantastico, dove i topolini erano puliti e vestivano magliette, dove l’orfanella tiranneggiata dall’avida Medusa finiva salvata da Bianca e Bernie in missione a bordo di un gabbiano dall’atterraggio poco morbido. Negli anime no. I topi se c’erano erano i ratti delle baracche degli operai tritati dalla rivoluzione industriale in cui viveva e lavorava Peline uscita dalla penna di Hector Malot con il nome originale di Perrine, erano il segno del sozzume in cui vivevano i poveri  nei sobborghi di Parigi mentre i nobili organizzavano feste di corte a Versaille.

Anche dentro Lady Oscar – forse il fenomeno più dirompente, di certo il più duraturo, (l’ultima replica italiana è finita su la La5 una settimana fa, l’autrice è ospite d’onore alla rassegna romana del fumetto Romics proprio in questi giorni) - si consumavano melodrammi privati, amori infelici, ma sullo sfondo, neanche tanto in fondo, c’era una rivoluzione francese ricostruita con puntiglio, che induceva le classi elemetari del 1982, anno della prima trasmissione italiana, a chiedere in massa le vicende di Robespierre e compagnia come argomento a scelta per l’esame di quinta.

Anche là dentro, si diceva, andava il mélo, anche lì gli eroi erano giovani e belli ma invece di vivere felici e contenti si ammalavano di tisi e morivano in guerra. Ed erano guerre in cui c’erano un bene e un male, ma da distinguere, da capire, da scegliere nel tormento di una crescita personale impegnativa: si trattava di decidere non solo da che parte stare ma che uomini e donne si voleva diventare, a costo di disobbedire, di rinunciare a titoli e gradi, di restare soli con il proprio nome a combattere, a rischiare, a riprendersi in mano da adulti la propria vita, pubblica o privata che fosse: c’era, in sostanza, una coscienza civile da formare.

Non era più il manicheo ordine costituito delle favole, in cui le tessere alla fine andavano a posto in un puzzle, dove alla fine il ranocchio diventava principe, i poveri si scoprivano di nobili natali e gli incantesimi sistemavano tutto quanto. Stavolta i protagonisti avevano un contesto vincolante in cui vivere, con una storia vera in cui incastrare i personaggi fittizi e i loro drammi, una storia con la “S” maiuscola dove i principi invece di andare a vivere in un castello incantato finivano sulla ghigliottina. 

Tutto questo faceva paura alle mamme, che temevano almeno un po’ l’irruzione di una realtà adulta dentro la vita dei loro bambini, soprattutto la violenza intrinseca delle lame rotanti dei primi robot, Gooldrake su tutti. Ci fu, all’alba degli anni Ottanta, un dibattito sul fatto che fossero o meno inadatti.

Le repliche innumerevoli, la nostalgia, i quarantenni della "generazione anime" che sbirciano le puntate guardate dai loro figli, con la scusa di proteggere loro e la voglia segreta di tornare per un attimo i bambini che sono stati, ci dicono che quel dibattito è lontano, che gli anime sono stati sdoganati e che forse a noi che ci siamo cresciuti per primi hanno lasciato anche cose importanti. Persino un po’ di cultura, perché a qualcuno dopo aver pianto con il dolce Remy a cartoni è pure venuta voglia di affrontare le pagine del corposo Senza famiglia di Hector Malot.

    E Gianni Rodari un giorno difese Goldrake, titolo originale Atlas Ufo Robot, il primo robot approdato in Italia, adorato dai piccoli, temutissimo dai grandi. In realtà era il terzo di una serie di sei che in Italia vennero proposti come distinti, in ordine diverso dall’originale. 

Fu accusato di essere ripetitivo, statico, violento, fatto al computer (era uno dei pregiudizi infondati che colpirono gli anime, frutto di un certo timore per la passione tecnologica dei giapponesi). Goldrake finì persino in aula parlamentare, al centro di un’ordinanza. Tacciato di violenza guerrafondaia e di razzismo, un po’ anche per la superficialità dello sguardo che si posava su un disegno che veniva da molto lontano e riproponeva, nella finzione scenica di un robot umanizzato comandato da un uomo, lo spirito delle antiche lotte dei samurai. 

Lo schema era abbastanza fisso: un invasore attaccava la terra dall’esterno. A Goldrake e a chi stava ai suoi comandi toccava difenderla a prezzo del rischio personale. Il nemico era chiaro e aveva lui sì caratteristiche poco nobili, di violenza cieca. Forse era schematico ma non cattivo, aveva armi avveniristiche e potenti che però non facevano paura a un profondo conoscitore di bambini qual era Gianni Rodari: «Invece di polemizzare con Goldrake», scriveva Rodari in un articolo del 1980 su Rinascita, «cerchiamo di far parlare i bambini di Goldrake, questa specie di Ercole moderno. Il vecchio Ercole era metà uomo e metà dio, questo in pratica è metà uomo e metà macchina spaziale, ma è lo stesso, ogni volta ha una grande impresa da affrontare, l'affronta e la supera. Cosa c'è di moralmente degenere rispetto ai miti di Ercole?».

E ancora, in un’intervista:  «Prendiamo per esempio i nuovi cartoni animati della televisione - mi riferisco e Goldrake, agli Ufo Robot, ecc. - non bisogna credere che limitino o avviliscano la fantasia infantile: basta vedere i bambini che giocano nei cortili imitando questi personaggi, per capire che si sono impadroniti di quel materiale fantastico e lo adoperano per dire quello che vogliono, e può essere che sia esattamente il contrario di quello che voleva comunicare l'ideatore del cartone animato. Non subiscono Goldrake, lo adoperano.  Hanno semplicemente una materia prima in più per giocare. Quindi sono importanti anche questi». 

A chi provava a metterlo al muro in un’intervista del 1982 Go Nagai, l’autore di Goldrake, rispose così: «Forse che nel mondo degli adulti che si arrabbiano con Goldrake non c’è violenza? Forse che se noi cartoonist raccontassimo ai bambini il mondo degli adulti com’è davvero senza pudori dipingeremmo scende di pace, serenità? Io credo che ci sia tanta ipocrisia in chi si preoccupa della violenza fantastica e non della violenza reale quotidiana che i bambini vedono benissimo».

Un merito Mimi Ayuara, Mila e Shiro (ma c’era anche un’altra Mimi, stesso nome stesso ruolo, approdata in Italia poco prima, a inizio anni Ottanta) l’hanno avuto: dare all’Italia, con tempo e pazienza, un bacino d’utenza di pallavoliste tali da mettere in piedi una tra le Nazionali più forti del mondo. 

Se chiedete a Francesca Piccinini, a Simona Gioli, a Lara Cardullo dove hanno cominciato a sognare una rete, vi parleranno di anime giapponesi, di Mila e Shiro. Funzionava così, proprio come diceva Rodari a proposito di Goldrake: si guardava, si sognava, si scendeva in cortile e si giocava per emulazione, mettendo in mezzo una palla e provando a inventare un modo di schiacciarla al di là di una rete immaginaria. 

Anche con i calciatori Holly e Banje per i maschi andava un po’ così, ma per loro pur con identica passione l’influenza fu minore: loro avevano da emulare gli eroi in carne ed ossa, quelli finiti sulle figurine panini dei calciatori passando direttamente dalla  carne alla carta, senza bisogno di animazione. 

Però per l’animazione giapponese lo sport è un genere: il ring dell’uomo Tigre, la racchetta di Jenny la tennista, la rete delle varie Mimì e dei loro epigoni. Una visione dello sport, fortemente agonistica, ma soprattutto cruda nella preparazione: allenatori rudi, abnegazione, fatica immane. C’era, in queste serie nate spesso in Giappone ai primi anni Settanta, il senso del sacrificio e l’idea nipponica del lavoro. Non lo capivamo, noi piccoli che guardavamo limitandoci ad ammirare la determinazione a tanto soffrire e il successo che ne conseguiva. Le nostre madri un po’ inorridivano al deformarsi di palloni e palline che diventavano ellissoidali per la violenza con cui venivano colpiti. 

A chi osserva anche oggi con uno sguardo adulto, in effetti, sembra stonata la carica di brutalità nascosta in quello sport che sapeva sacrificare giovinezze sull’altare di un risultato. Se pensiamo oggi a che cosa accadeva nella realtà di quegli stessi anni Settanta nelle palestre dell’Est europeo non siamo autorizzati a inorridire. Lo sport era, nella realtà, non meno rude ma meno pronto, rispetto ai cartoni, a far trionfare gli onesti, i leali. 

Se dovessimo immaginarli oggi, questi cartoni, (e in effetti Mila e Shiro più recente è già meno duro), forse li immagineremmo diversi, più lievi. Là dentro invece era evidente quello che chi guarda lo sport in carne e ossa, ad alto livello, tende a rimuovere: il dolore fisico, che ne è invece una caratteristica intrinseca, quando un corpo viene impegnato al massimo del suo rendimento. 

Ronaldo assomigliava a Bugs Bunnie ma non era un coniglio di carta, non rimbalzava, quando cadeva i suoi tendini facevano crac. Ecco questo nell’epopea dello sport vero tendiamo a rimuoverlo, a mettere l’infortunio nel conto, senza indugiare sui particolari crudi di un corpo che si rompe e della sofferenza che comporta rimetterlo in sesto possibilmente in fretta. Nella drammaticità spesso eccessiva degli anime, invece il dolore si coglieva a piene mani. 

In difetto però c’era sempre l’essenza dello sport: il difficile era rendere un’idea accettabile del movimento, un problema ,da sempre presente ai registi che si cimentano con il cinema sportivo, che non ha risparmiato gli anime. Anche per questi limiti queste serie, pur fortunatissime, smettono di stuzzicare la curiosità non appena l’occhio dello spettatore si fa più adulto e disincantato, una sorte che non tocca i prodotti migliori d’altri generi.

GOLDRAKE, alias Atlas Ufo Robot, il primo robot arrivato in Italia. Il soggetto di Go Nagai narra le avventure di Actarus, giovane pilota, del robot impegnato a difendere il pianeta terra dalle mire espansionistiche del dispotico re della stella Vega. La sua sigla italiana fu composta da Vince Tempera, tastierista tra i più apprezzati in Italia, parte tra l’altro della band che accompagna Francesco Guccini, spesso costretto dai fans a un fuori programma in concerto al grido di «Mangia libri di cibernetica, insalate di matematica…». Fanno parte della medesima serie i Mazinga e Jeeg robot d’acciao.  

CANDY CANDY, orfanella sul lago Michigan, cresce in una affettuosa casa d’accoglienza. Adottata dal misterioso ed eccentrico signor Arthur, andrà a studiare in Inghilterra in una prestigiosa scuola vittoriana, prima di diventare infermiera sullo sfondo della prima guerra mondiale. Drammone stile soap opera, mélo sentimentale molto fortunato, con al centro la storia di un amore drammatico e infelice per il bel tenebroso Terence. 

HEIDI, tratto dal romanzo della Svizzera Johanna Spyri, è la storia triste ma a lieto fine dell’orfanella che allevata dal nonno sulle Alpi approda controvoglia in città a casa Sesemann, dove viene educata dalla signorina Rottermeier, burbera e comica governante passata alla storia come metafora della severità pedante e ingiustificata. Heidi, Klara, Peter sono diventati un cult replicato in Italia all’infinito. Uno degli autori Hayao Myazaki è oggi stella del cinema d’animazione giapponese, suoi tra gli altri il film La città incantatata e Ponyo. Heidi, con Remy, Pollyanna, Peline, Anna dai capelli rossi, Belle e Sebastien, fa parte di un fortunato filone tratto dai classici per ragazzi europei.  

CAPITAN HALRLOCK è un pirata romantico che, alla fine del terzo millennio, a bordo della sua astronave Arcadia si ritira con un piccolo equipaggio dalla terra ormai schiava delle macchine e prosciugata delle sue risorse. Quando però il pianeta verrà minacciato dalle aliene capitanate dalla regina Maflesia, Harlock non esiterà a tornare per per salvarlo. Un ritorno incompreso: il pianetà si salva ma l’eroe viene respinto, per timore dei valori di libertà e di cui si fa portatore.  

LADY OSCAR. Figlia di un generale che non si rassegna alla mancanza di un erede maschio, Oscar riceve un nome maschile, viene educata dal padre come un uomo e destinata alla vita militare alla corte di Francia di Luigi XVI. Personaggio di grande spessore psicologico, come molti della serie, acquisirà a poco a poco coscienza critica, fino a schierarsi, lei nobile ed ex colonnello delle guardie reali, dalla parte del popolo nella rivoluzione, non prima di aver promesso amore eterno ad André l’attendente cresciuto con lei e privo di titoli nobiliari. L'eternità durerà un giorno: un destino di morte attenderà entrambi alla Bastiglia. L’anime, che compie trent’anni in questi giorni, viene considerato dagli esperti tra i migliori mai prodotti, anche per il riuscito innesto dei personaggi di fantasia sul fondo storico.  

HALLO SPANK. Di un genere più lieve, comico a tratti, il cartone, si regge sulle simpaticissime gag di Spank cane pasticcione capace di pensieri umani e del suo inseparabile amico/nemico/rivale in amore Torakiki, irresistibile gatto dall’accento teutonico. Lo sfondo è giapponese, narra la vita quotidiana di Aiko padroncina di Spank: la scuola, la casa, la spiaggia, gli amici, i primi amori e un papà disperso in mare. In questo  momento Spank e Torakiki stanno vivendo in Italia un potentissimo revival nel merchandising.

Segui il Giubileo 2025 con Famiglia Cristiana
 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo