C’è una storia sottotraccia che non trova spazio nella narrazione delle vicende atroci degli Anni di piombo. È l’azione silenziosa, ma efficace, della “difficile” misericordia esercitata dalle vittime del terrorismo, e dai loro familiari, in risposta agli omicidi delle Brigate rosse. Una storia ancora tutta da raccontare. Come quella degli Anni di piombo a Mestre. «Del giorno dei funerali ricordo ben poco. Non volevo vedere ciò che mi circondava, ma soprattutto non volevo credere che dentro quella scatola di legno ci fosse il mio papà. Tutto è finito con una telefonata, il mattino del 29 gennaio 1980. Era terminata la mia giovinezza ed era iniziata l’epoca della sopravvivenza. Di una cosa però sono era: nonostante gli episodi e il clima di violenza che hanno caratterizzato la mia giovane vita, ha prevalso in me l’amore e non l’odio. E di questo ringrazio chi veglia su di me». È il messaggio lanciato in un incontro pubblico a Mestre, organizzato da Fondazione del Duomo e Istituto di Cultura Laurentianum, da Barbara Gori, figlia dell’ingegner Sergio Gori, direttore tecnico del Petrolchimico di Porto Marghera, che parla dell’assassinio del padre, ucciso dalle Br 36 anni fa.
Di lì a poco Mestre sarebbe stata ancora tragico teatro del terrorismo brigatista: il 12 maggio di quell’anno, infatti, la stessa sorte di Gori toccherà al commissario Alfredo Albanese, dal 1979 nella Digos veneziana e capo della sezione Antiterrorismo, che si stava occupando proprio della morte del dirigente Montedison. Teresa, vedova Albanese, ai tempi dell’omicidio era incinta di Alfredo junior. Oggi dice: «A causa dell’omicidio rischiai di perdere mio figlio, ma alla ne tutto andò bene. L’ho educato senza inoculargli odio o trasmettendo l’immagine del padre-eroe. Ma questi eventi non sono ancora nei programmi scolastici. Resta una volontà di rimozione collettiva. I giovani, invece, devono sapere che il nostro Paese è stato attraversato dal terrorismo. Che a Mestre ci sono stati dei martiri. Conoscere il passato serve a non ripetere gli stessi tragici errori». Il messaggio è chiaro: misericordia e verità devono camminare assieme per essere feconde.
Chi era Giuseppe Taliercio, il direttore Montedison sequestrato e ucciso dalle Brigate Rosse e il suo esempio cristiano
Il 20 maggio 1981, viene rapito dalle Br Giuseppe Taliercio, direttore dello stabilimento petrolchimico della Montedison, ucciso dopo 47 giorni di prigionia. Il corpo sarà ritrovato crivellato da 17 colpi di pistola esplosi da Antonio Savasta. Cesare Taliercio, che allora aveva 18 anni, si trovava in casa con la sorella Bianca e i genitori la mattina in cui i brigatisti, travestiti da nanzieri, si introdussero nell’abitazione e rapirono suo padre. «Dopo 35 anni cosa suscita in me la parola “misericordia”? Difdicile da dire. Allora con davamo in quella di Dio, che ci ridesse mio padre », spiega. «Ma anche dopo, la misericordia ci ha accompagnato sempre». Era quanto insegnava papà Giuseppe ai suoi cinque gli, col suo silenzioso esempio.
«Anche il lavoro, per lui che era credente, era una missione. E solo dopo la sua morte venimmo a sapere che, nonostante tutti i suoi gravosi impegni, trovava il tempo di dedicarsi alle famiglie bisognose della città, attraverso il volontariato nella San Vincenzo», racconta Cesare. La madre Gabriella, cresciuta con Giuseppe nell’Azione cattolica, a proposito della “difficile” misericordia ebbe a dire: «Quando qualcuno si meraviglia per il perdono che abbiamo concesso ai suoi assassini, io e i miei gli rispondiamo in modo semplice: la strada del perdono, dell’amore e della bontà è l’unica che Pino ci ha insegnato. La pace è un grandissimo dono e ringraziamo il Signore che ce la offre e chiediamo a tutti di pregare per questi brigatisti che anche per loro nisca questa tragedia, e che l’uomo torni ad amare e a non odiare più».
Savasta, nel 1985, all’inizio del processo disse dell’ingegnere: «Tentava di spiegarci il senso della vita e io non capivo da dove prendesse la forza per essere così sereno». Se è vero che esercitare misericordia signi ca rinunciare all’esercizio del potere e al male che potresti fare su chi hai nelle tue mani e salvarlo, il brigatismo rappresentò l’antimisericordia, macchiandosi di una speciale infamia, per la quale passerà alla storia. «Esattamente al contrario», commenta Gianfranco Bettin, sociologo e scrittore veneziano che visse quella tragica stagione, «l’unica misericordia fu quella praticata dai familiari delle vittime, che divenne ef cace azione nella storia, perché il loro perdono consentì riabilitazioni, aprì le porte delle galere, ridusse gli anni di reclusione ». Sradicò, cioè, la pianta dell’odio, paci cando un Paese.
(articolo originale pubblicato su Famiglia Cristiana N.3 del 2017. Immagine in alto: la foto scattata dalle Brigate Rosse dell'ingegner Taliercio durante il sequestro. Ansa Foto / Archivio)