È passato un altro giorno dei santi, e dei defunti. La gioia, il conforto della vita eterna, e il dolore, le lacrime, l’abbandono. Tanti santi, nell’una e nell’altra schiera, che non vedremo mai sugli altari. Ma sono i santi, noti e sconosciuti, che danno speranza all’umanità, e portano avanti la Chiesa. Tutti noi piangiamo i nostri cari che non sono più tra noi, se non nella memoria, per cui chiediamo intercessione e crediamo possano intercedere per noi. I cimiteri sono tutti campi santi, e così dovremmo tornare a chiamarli, a percorrerli con riverenza e tenerezza. Come in chiesa, ne riceviamo pace e domande che devono pulsare nel nostro animo.
Non è un caso che alcune vette della poesia nascano dal turbamento, dalla meditazione sofferta di una lapide, un sepolcro. Penso, in questo tempo dilaniato da paura e guerre che ci toccano così da vicino, quante madri, sorelle, mogli sono ai piedi della croce per innocenti uccisi, magari bambini, e il loro strazio mi riempie di silenzio. Che senso dare al loro dolore, come tener vivo e bruciante l’interrogativo sul perché del male e come possiamo ridurre l’impotenza che ci afferra, e che riusciamo a stento a sopportare. Abbiamo allontanato la morte dalle nostre vite frenetiche e alla ricerca inquieta di felicità. Oppure la esibiamo, per scaramanzia o peggio, solo per smemoratezza e superficialità, sbeffeggiandola con zucche e scheletri danzanti, ingentiliti per non spaventarci troppo. Così assetati di vita da accantonare, eliminare o ridurre a burla la domanda scomoda sulla morte.
Non sappiamo neppure parlarne ai nostri figli (nemmeno se toccano i loro parenti più stretti: «I ragazzi non portiamoli, poverini».) Eppure sono bambini le vittime e gli orfani in Ucraina, Israele, Palestina. Invece guardare in faccia la realtà e il suo dramma ci aiuta. A dire grazie per quel che abbiamo, mettendo da parte qualche lamentela e rabbiosità e a lasciar andare con gratuità chi amiamo, in una fratellanza umana che dovrebbe unirci, darci sostegno e slancio di carità. A sentire nel cuore la pietà, e saperci fratelli anche di chi è lontano. A ricordare il limite che ci caratterizza e che frena la nostra presunzione, quella perenne brama di decidere della nostra vita, come se non l’avessimo ricevuta in dono.
Non amiamo la morte, non riusciamo a comprendere chi la cerca, dichiarando che uccide e si uccide in nome di un dio. Amiamo così tanto la vita da doverci spendere in ogni modo, in parole opere e pensieri, per affermarla, sempre e prima di tutto. In nome di un segno di morte, la croce, che è diventata simbolo di vita piena, redenta, e immortale.