«Sono sicuro che Tonino è contento di questa visita, contento per la gente, contento per la Chiesa per la quale stravedeva. Contento perché questo Papa la pensa come lui». Trifone Bello, 81 anni, ci accoglie in casa come vecchi amici di famiglia. Alle pareti quadri e foto parlano di suo fratello. «Lui si aspetta chissà quale annuncio straordinario», aggiunge Marcello, di due anni più piccolo, «io invece sono convinto che straordinario è stato che Tonino abbia vissuto così come ha fatto e che la gente lo ricordi con così tanto calore». Entrambi erano stati a Santa Marta, nel novembre 2013. «Dopo la Messa avevo chiesto a papa Francesco se c’era la possibilità di venire ad Alessano. Mi rispose: “Ci penseremo”. Sono passati quattro anni e quel pensiero sta diventando realtà», dice ancora Marcello.
C’è emozione fra i familiari, «non solo per la visita di papa Francesco, ma anche per tutto quello che vediamo. Nostro fratello, dopo 25 anni, è amato e ricordato». La famiglia Bello è un fiume in piena di ricordi e tenerezze. «Era molto attaccato a noi anche se era sempre a disposizione di tutti. Non perdeva tempo, quasi sapesse che la sua vita sarebbe stata breve».
Quando il telefono squillava in casa di Trifone, alle 7.15 del mattino, le piccole Francesca e Raffaella si precipitavano nella stanza dei genitori, dov’era l’apparecchio principale, per parlare con «lo zio». La telefonata arrivava puntuale ogni giorno, a meno che «lo zio» non fosse all’estero o impegnato in qualche ritiro. E anche se il fratello del papà di cose da fare ne aveva tante, «non si dimenticava mai della sua famiglia e della sua terra». Non tralasciava i suoi quattro nipoti, con “Checca” e “Lella”, anche i figli di Marcello e Tetta, Stefano e Federica. «Ci dedicava poesie, ci portava al mare. Ha insegnato a nuotare a noi e a tutto il nostro gruppo. Aveva un dono speciale con noi ragazzi», ricorda Francesca.
Lei aveva cinque anni e, visto che non andava ancora a scuola, lo aveva accompagnato, con il padre e la mamma Velia, fino alla cattedrale di Molfetta quando, nel 1982, chiamato ancora una volta a quell’incarico, don Tonino Bello non aveva più potuto rifiutare di diventare vescovo. «Io e Marcello», confessa Trifone, «conserviamo ancora la lettera del 1981 con la quale, rispondendo al cardinale Baggio, Tonino ringraziava per l’onore, ma chiedeva la possibilità di rimanere ancora tra i suoi parrocchiani. Con noi due si era messo a piangere, lo sentiva come un fardello troppo pesante. E poi non voleva lasciare nostra madre che era anziana e malata. Quando, morta la mamma, da Roma tornarono a scrivergli non poté tirarsi indietro. Non ci disse nulla. Scoprimmo che sarebbe diventato vescovo da una lettera che aveva lasciato sulla scrivania».
I due fratelli ripercorrono gli anni dell’infanzia, quando Tonino li faceva assistere a una “messa” tutta sua e distribuiva loro la “comunione” tagliando le pere a fette. E poi quelli dello studio, prima nel seminario di Ugento, a 11 anni, a Molfetta, quando ne aveva 16, e dopo al seminario di Onarmo, a Bologna, dove concluse gli studi teologici a 22 anni. «Fu subito ordinato sacerdote nella chiesa madre di Alessano. Era l’8 dicembre 1957. Per mamma», continua Trifone, «era un orgoglio vederlo studiare. Aveva fatto tanti sacrifici per crescerci da sola, ma Tonino la ripagava di tutto». Un infarto si era portato via papà Tommaso quando i tre erano ancora piccoli. I due fratelli più grandi, figli della prima moglie morta giovanissima, erano già in Marina, mentre infuriava la guerra. Anche Carmine, il maggiore, viene stroncato da un infarto nel 1944, mentre Vittorio era morto nel 1943 nell’affondamento della corazzata Roma. «Le morti dei fratelli durante la guerra segnarono moltissimo Tonino», ricorda Trifone, «credo che fu proprio in seguito a quegli eventi che maturò fortissima in lui l’avversione per le armi e per i conflitti».
Quando già la malattia era avanzata aveva voluto mettersi in marcia per Sarajevo, il 7 dicembre 1992. «Quella volta mi chiese di accompagnarlo, sapeva che aveva bisogno di sostegno», ricorda Trifone. «Quando arrivammo a Sarajevo c’era la possibilità di restare a dormire un po’ più riparati. Io ero tentato, lo ammetto, ma lui mi disse che dovevamo stare con gli altri. E anche quando ci mettemmo a dormire, io che avevo lavorato nelle costruzioni, cercai il posto che potesse resistere meglio ai bombardamenti. Mi venne a cercare per riportarmi con gli altri. Questo era mio fratello: bisognava condividere la stessa condizione di tutti, non c’erano privilegi. E noi», conclude Trifone, «siamo stati contenti che, dopo 25 anni da sacerdote e 10 da vescovo, Tonino sia morto senza una lira. Questa è la cosa più bella che a noi dà gioia e soddisfazione».
Aveva scelto la strada degli ultimi, così come aveva scolpito nel suo stemma episcopale «Ascoltino gli umili e si rallegrino». Lo aveva voluto in italiano, quel motto, nonostante il mugugno di qualcuno che gli ricordava che quella frase, da prassi, andava riportata in latino. «Tonino», ricordano i fratelli, «aveva risposto che se fosse stata tradotta in latino gli umili non avrebbero potuto né ascoltare, né rallegrarsi». E c’è da scommettere che il 20 aprile, quando papa Francesco lo ricorderà, ad ascoltare e a rallegrarsi saranno soprattutto gli umili e i poveri.