Quando ci si scopre vittime di odio in Rete, come ci si difende? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica alla Statale di Milano, tra i più esperti sul tema. «Gli strumenti per proteggersi dall’odio in Rete sono tre, con diversi livelli di intervento: non rispondere alle offese; non alimentare la discussione; non “nutrire” i troll. Questo permette anche alle offese di non salire di evidenza sui social grazie agli algoritmi».
Una volta partito l’odio c’è modo di fermarlo?
«Segnalare alla piattaforma il commento se si pensa che violi la policy. Ciò consente di farlo rimuovere e di “trovare giustizia” all’interno della piattaforma stessa e, a volte, anche di ottenere la sospensione dell’account». (È ciò che ha fatto di recente la scrittrice Michela Murgia, ndr).
E quando una frase scritta in Rete sconfina nel reato?
«Se c’è reato, per esempio diffamazione o stalking, lo strumento è la denuncia, così interviene il diritto. Magari unendo gli accorgimenti di cui sopra».
C’è stato modo di saggiare l’efficacia della norma che punisce il cyberbullismo?
«È presto, ma ci sono critiche sulla reale operatività della legge: è positivo che compiuti i 14 anni si possa chiedere direttamente alla piattaforma la rimozione dei contenuti difendendo in autonomia la privacy, il problema è che spesso la risposta non arriva e ancora pochi ragazzi sanno che ci si deve rivolgere al Garante della privacy. Polizia postale e Corecom informano, ma c’è ancora lavoro da fare».