Un brano della Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani proposto come seconda prova all’esame di Maturità nel Liceo delle scienze umane. Prendendola alla larga, si potrebbe leggere la faccenda in chiave dantesca, come un contrappasso, oppure in chiave evangelica: la pietra di scarto che diventa pietra d’angolo. Il libro polemico scritto con Milani dai suoi ragazzi, innescato dalla bocciatura di due di loro all’esame da privatisti per la prima magistrale nel 1967, 52 anni dopo, diventa spunto per saggiare la maturità di coloro che escono dalla scuola che di quell’istituto magistrale è l’evoluzione, dove si presume si formino persone che non escludono in futuro, completando all’università la loro formazione, di diventare maestri, insegnanti, educatori.
Forse Don Milani se la ride da Lassù, vedendo che la sua profezia s’è avverata un’altra volta: «Mi capiranno tra cinquant’anni», diceva. A mezzo secolo dalla sua morte c’è arrivata la Chiesa, con il primo papa, Francesco, salito a Barbiana a sanare la ferita di quel sacerdozio incompreso dalla gerarchia del tempo. Cinquantadue anni dopo ci arriva il Ministero dell’Istruzione, che ai tempi di don Milani lasciava per strada scartati che, dopo, la scuola di Barbiana finiva per raccogliere.
Non è una brutta idea che si chieda a chi studia scienze umane di riflettere dell’attualità di un brano che mette in luce l’impatto del condizionamento sociale sul successo e l’insuccesso scolastico. È un problema che esiste ancora, anche se non esiste più una scuola in cui si faccia quattro o cinque volte la prima elementare per poi tornare ai campi, perché esiste una scuola che disperde ancora molto nelle periferie del presente, curando sani e perdendo malati. E anche un po’ perché esiste un’altra scuola che – condizionata da troppi automatismi -, invece, porta talvolta anche alla Maturità, con la certezza quasi matematica di uscirne promossi, ragazzi che forse illude di un ascensore sociale che non sa più muovere, assediata com’è, molto più di allora, da sirene che, in misura molto semplificata, cantavano già allora.
Adele Corradi, la professoressa che, turbata all’epoca dalla lettura della Lettera, spese anni aiutando Lorenzo Milani a Barbiana, non molto tempo fa, durante una nostra chiacchierata, osservava una cosa interessante e poco rilevata. Un aspetto che torna nelle righe proposte oggi alla Maturità e che è ancora, anzi molto di più, un tema centrale: «Don Milani, nel contesto degli anni Cinqunta, intuì prima degli altri un problema cruciale: mentre la Chiesa dell’epoca concentrava sul comunismo tutta la sua preoccupazione per il materialismo, Milani intuì che quel pericolo veniva anche dal benessere non sostenuto dalla cultura: se tu dai a un ragazzo benessere senza strumenti critici, lo metti in mano alla pubblicità, ne fai un consumatore succube. Di questo Milani aveva una visione chiarissima. Negli ultimi tempi diceva: "Ci faranno mangiare a tutti lo stesso gelato". Ricordo che provocava le mie scolare della scuola media: "Stanno decidendo a New york se l’anno prossimo ballerete la mazurka o un altro ballo". Loro ribattevano: "Balleremo quello che ci piace". E lui: "Ballerete quello che vi faranno ballare"».
La sfida più grande dei futuri insegnanti nativi digitali sarà imparare e insegnare il senso critico che serve a tenere in tasca uno smartphone senza lasciarsene dominare. C’era già questo, anche se non si vede al volo, in quel testo di mezzo secolo fa, tanto vale cominciare a ragionarci da lì.