Ora che il bilancio dei morti ha superato quota 300, che il coronavirus ha infettato almeno 100 persone in 24 paesi (fonte OMS), che c’è stata una prima vittima fuori dalla Cina, nelle Filippine (anche se si tratta di un abitante di Wuhan, la città della provincia di Hubei epicentro della malattia), ora che il Paese governato da Xi Jinping è sempre più bloccato all’interno e isolato dal resto mondo per via del blocco dei voli deciso da quasi tutte le compagnie aeree, bisogna chiedersi: cosa racconta della Cina questa epidemia che fa paura più della Sars e che l’OMS (Organizzazione mondiale della Sanità) ha classificato come emergenza sanitaria globale? Sabato scorso la Cina ha chiesto ufficialmente aiuto all’Unione Europea per ottenere 12 tonnellate di aiuti "urgenti": guanti, mascherine, tute protettive e altre attrezzature mediche adeguate per contrastare il virus e curare le persone contagiate.
Esaltato fino a poche settimane fa per i suoi risultati economici, per la potenza militare e politica, per essere un gigante che fa paura al mondo, compresa la superpotenza americana, ecco che ora il Paese si trova a fronteggiare con poca efficacia e con grande debolezza un’epidemia dagli esiti imprevedibili e che già minaccia l’economia interna e quella globale. Sulle prime il presidente Xi Jinping, che ha cambiato la costituzione per rimanere presidente a vita, ha minimizzato. Poi è stato costretto a dire che il virus sta avanzando. Infine, si è trincerato dietro un silenzio assordante. Fino, appunto, alla richiesta di aiuto all’Unione Europea per avere medicinali e attrezzature sanitarie.
I medici di Wuhan, in prima linea nella lotta contro il virus, da giorni lamentano la mancanza di strumentazioni e test-kit per scoprire la malattia nelle decine di migliaia di pazienti che affollano i corridoi degli ospedali. Con grande eroismo essi lavorano in modo 24 ore su 24 ma non basta. Sebbene il governo abbia deciso nei giorni scorsi di inviare 150 medici soldati esperti nella Sars e altri quattromila in altre parti del Paese, nella provincia dell’Hubei e nella Cina mancano tute protettive, occhiali di salvataggio, mascherine igieniche che rendono impraticabile l'impiego di questi nuovi medici se non mettendoli a rischio di contagio. Intanto vengono tirati su a tempi di record "ospedali" (ma sarebbe più corretto dire che si tratta di luoghi di degenza) composti da prefabbricati per ricoverare i malati. Si calcola che con l'epidemia in corso siano necessari almeno 100mila tute protettive al giorno, ma la Cina in periodi di tempo a pieno regime ne riesce a produrre solo 30mila al giorno. Calcolando che è in corso il Capodanno lunare, la produzione è ora scesa a 15mila tute al giorno. Importarle da fuori non è semplice per le rigide regole cinesi sulle importazioni. Non a caso, vista l'emergenza, il governo ha sospeso i dazi su materiale sanitario proveniente dagli Usa.
I ritardi dovuti anche al rigido centralismo del regime
Secondo la rivista The Lancet, i primi casi di coronavirus sono stati registrati il 1° dicembre scorso a Wuhan. Altri malati, una decina pare, sono seguiti nel giro di una settimana. E tutti erano passati dal mercato del pesce e della carne selvatica. Bisognerà però aspettare la fine di dicembre, cioè un mese, perché Pechino venisse informata o se ne interessasse. Vai a sapere. È del 31 dicembre, infatti, la prima comunicazione ufficiale di problemi sanitari a Wuhan ricevuta dall’Oms di Ginevra. E fino a metà gennaio i malati di «polmonite misteriosa» per Wuhan erano incredibilmente solo 45. Sabato, in un giorno solo, hanno perso la vita 45 persone. Almeno altre otto persone hanno denunciato l'epidemia un mese dopo, il 1° gennaio, ma la polizia li ha arrestati perché ritenuti colpevoli di diffondere "fake news" e attentavano all'ordine sociale. Tra questi c'era anche un medico di Whuan, Li Wenliang. Solo una settimana dopo si è cominciato a parlare ufficialmente di una possibile epidemia simile alla Sars nel silenzio assoluto dei vertici del governo cinese.
«In questo caso», ha scritto su AsiaNews padre Bernardo Cervellera, «è evidente che la mancanza di un'informazione libera è divenuta un boomerang che si è ritorto contro il Paese. Il controllo sull'informazione ha portato a rallentamenti sull'emergenza, come ha dichiarato due giorni fa lo stesso sindaco di Wuhan. Il 27 gennaio scorso, in un'intervista al canale nazionale CCTV, Zhou Xianwang ha ammesso che "non solo non abbiamo rivelato le informazioni sullo sviluppo del coronavirus nella città in tempo, ma non abbiamo usato le informazioni in modo efficace per migliorare il nostro lavoro"».
Il rigido centralismo del regime è stato un ostacolo nella sottovalutazione prima e nel diffondersi del virus poi. Prima di lanciare l'emergenza di un'epidemia, infatti, si deve ricevere l'approvazione del Consiglio di Stato. Questa procedura centralizzata, è evidente, non permette di prendere decisioni immediate ed efficaci nemmeno a livello di provincia. La stessa cosa avviene per dichiarare ufficialmente una persona come affetto da coronavirus: il test positivo va inviato alla sezione sanità della provincia che a sua volta studia le carte e dà il permesso di ricoverare il paziente. In tal caso si perdono giorni preziosi per curare un malato che intanto, non essendo posto in quarantena, diviene un diffusore “mobile” del virus stesso. I ritardi nel contrasto all’epidemia, la lentezza dei comandi, le informazioni veicolate da alcuni medici soffocate per non creare “allarmismo” sono alla base dei ritardi con cui la Cina ha affrontato il problema.
Wuhan, epicentro dell'epidemia, è uno dei motori economici del Paese
Un altro aspetto è che l’epicentro dell’epidemia riguarda la provincia di Hubei e in particolare il capoluogo Wuhan che è uno dei principali motori per la crescita economica del Paese, che quest’anno Pechino stima al 6,1%, la più bassa in 30 anni. Prima della crisi, il governo di Wuhan prevedeva una crescita superiore al 7,8%. La città, dove risiedono 11 milioni di persone, genera un volume di affari pari a 214 miliardi di dollari Usa, circa l’1,6% del Pil cinese. Situata in una regione centrale della Cina, Wuhan è uno snodo vitale nel settore della logistica, in quello della produzione di automobili e dell’industria siderurgica.
Una iattura che l’epidemia sia scoppiata proprio lì, insomma. Il coronavirus rischia di rivelarsi un boomerang, l’ennesimo dopo la rivolta di Hong Kong, per il tanto sbandierato “sogno cinese” che, come ha scritto acutamente padre Cervellera, «prevede una “società moderatamente benestante” entro il 2021, in occasione del 100º anniversario del Partito comunista cinese, e la modernizzazione del Paese in una nazione completamente sviluppata entro il 2049, centesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare. Nel 2019 Xi ha dovuto affrontare tante sfide a questo sogno e ne è sempre uscito perdente. La guerra dei dazi ha impoverito la Cina e dopo i tentativi, voluti da Xi, di scontro con gli Usa, Pechino ha dovuto accettare le condizioni poste da Washington».
Proprio a causa della guerra dei dazi e della crisi mondiale, l'economia cinese non è tanto florida e sempre più esperti pensano che le cifre e statistiche snocciolate dal governo siano non veritiere. Ora i collegamenti aerei e i trasporti sono interrotti, i pacchetti turistici cancellati, le chiusure temporanee delle industrie e degli esercizi commerciali e gli oltre 50 milioni di persone sottoposte a regime di quarantena potranno solo peggiorare la situazione. La Banca centrale cinese ha detto che metterà in circolazione circa 156 miliardi di euro per contrastare le perdite economiche causate dal diffondersi del virus. Sperando che basti.