Paolo Morselli, il primo a sinistra, con il suo gruppo di lavoro.
La prima è stata Babù, una bambina di soli quattro anni. Suo padre le versava acido in bocca e nell’orecchio per ucciderla: pensava di aver trovato il modo per farlo senza che se ne accorgesse nessuno. La sua coraggiosa mamma ha portato Babù all’ospedale, sfidando il marito padrone. Qui, l’equipe di Paolo Morselli, le ha ricostruito la funzionalità della lingua e del palato distrutti dalle cicacitrici. Chirurgo plastico bolognese e docente alla Scuola di specializzazione in Chirurgia plastica dell'Università di Bologna, è il medico che nel 1988 ha fondato nterethnos Interplast Italy Onlus, un'associazione dove medici altamente specializzati in chirurgia plastica ricostruttiva prestano gratuitamente la loro opera organizzando delle vere e proprie missioni rivolte a pazienti disagiati negli angoli più remoti della terra, e formano medici e personale sanitario locale affinché possano apprendere le nuove metodiche chirurgiche e diventare loro stessi validi specialisti.
- Professor Morselli come è nata Interthnos?
«Durante un congresso di chirurgia plastica a Bologna, un autorevole personaggio di uno stato asiatico, ci ha chiesto aiuto. Nel suo paese non si facevano operazioni di chirurgia plastica e non si operavano i bambini affetti da malformazioni. Abbiamo accettato il suo invito e iniziato la preparazione della nostra prima missione in quel paese, che si è verificata nel 1988. Da allora, in quel paese abbiamo effettuato più di 20 missioni, perseguendo lo scopo più importante del nostro lavoro: fare didattica per i medici locali interessati alla nostra chirurgia specialistica. Abbiamo cominciato a operare in un ospedale universitario, dove c’erano studenti di medicina che hanno scelto di specializzarsi in chirurgia plastica ricostituiva, una specializzazione che a quel tempo non esisteva e non era stata prevista. Grazie alla nostra attività didattica e alle borse di studio, molti dei medici che ora operano in quel paese, sono stati studenti che hanno potuto specializzarsi in Italia e in Germania. Sono diventati la nuova classe medica, direttori di strutture universitarie e ospedaliere e primari di unità operative».
- In quali altri paese operate?
«Il modello che è stato utilizzato nel primo paese in cui abbiamo operato è stato riprodotto in Asia, in America Latina, in Africa , in Oriente. Spesso lavoriamo in condizioni difficili, anche a causa degli eventi naturali che stravolgono questi paesi. In Nepal, per esempio, siamo partiti pochi giorni prima della grande alluvione ma eravamo là subito dopo il terremoto che ha devastato il paese. Abbiamo operato anche in Europa nei primi anni ’90: in Albania dove abbiamo fatto molti interventi».
- In base a cosa decidete di intervenire in paese piuttosto che in un altro?
«Quando decidiamo una missione , la prima cosa da valutare è se c’è un ambiente fertile per la didattica. Organizzare una missione di questo genere è molto impegnativo sia da un punto di vista economico che professionale: poter lavorare in una struttura dove i medici locali possono diventare autonomi per noi è una priorità. Il nostro gruppo, non è composto solo da chirurghi: ci sono gli specialisti in anestesiologia, infermieri specializzati. Nell’ambito della chirurgia plastica ricostruttiva ci sono settori di particolare specializzazione, ad esempio la microchirurgia, le malformazioni, le ustioni, i traumi per incidenti avvenuti sul lavoro o incidenti stradali …. Le ustioni sono molto frequenti e creano lesioni devastanti. Le contrazioni che si verificano a seguito delle ustioni impediscono, a seconda del distretto anatomico che colpiscono, severissimi danni funzionali alle mani, agli arti inferiori, al volto, creando disturbi funzionali di grande entità. In Nepal, durante le ultime missioni, come spesso accade, abbiamo avuto la possibilità di curare casi di ustioni determinate da una non idonea capacità di effettuare prevenzione. Molti sono i casi di folgorazione che distruggono totalmente la parte anatomica che viene coinvolta. Ad esempio, ci sono fili di alta tensione che non sono protetti: questo avviene sia nelle città che nelle campagne. Una ragazza 14enne in gravidanza, mentre lavorava nei campi, è stata colpita da un filo ad alta tensione che le ha sfigurato completamente il volto e il braccio destro che lei ha utilizzato per proteggers»i.
- Come funziona una missione e chi sono i professionisti che vi partecipano ?
«I nostri professionisti vengono da tutti gli ospedali di Italia. Chi parte con le nostre missioni non è retribuito e deve usufruire dei giorni di ferie per svolgere l’attività di volontariato. La nostra organizzazione, grazie alla generosità dei nostri sostenitori, ci permette di acquistare tutto il materiale necessario e provvedere ai costi del viaggio aereo e dell’alloggio dei medici volontari. I nostri fondi, oltre che per le spese di missione, sono destinati alle borse di studio per i medici che vengono da noi a specializzarsi. La missione dura due settimane, perché restare più a lungo vorrebbe dire bloccare per un periodo troppo a lungo le normali attività dell’ospedale. Portiamo dall’Italia gli strumenti chirurgici necessari, farmaci, suture… La nostra organizzazione si occupa anche di acquistare strumenti chirurgici indispensabili per poter eseguire alcune tecniche chirurgiche che vengono insegnate durante il nostro periodo di permanenza. Non c’è scambio di denaro ma di professionalità».
- Chi sono i vostri pazienti?
«Le nostre cure si rivolgono soprattutto alla fascia più povera delle popolazione, quella che non può permettersi un’assistenza sanitaria. Nella maggior parte dei paesi, l’assistenza sanitaria gratuita non esiste. La nostra missione è per loro l’unica opportunità di essere curati».
- Che tipo di relazione avete con i governi locali?
«Le nostre relazioni internazionali si svolgono con i colleghi degli ospedali non con i governi locali. E’ successo però ch,e tramite i medici locali con cui lavoriamo, il Governo ci abbia richiesto come esperti per valutare quali fossero le carenze e cosa ci fosse bisogno di migliorare come, per esempio, costruire o ampliare il centro ustioni e il reparto di chirurgia ricostruttiva».
- Lei è stato premiato dal Dalai Lama. Come è stato l'incontro?
«Una grande emozione. A San Francisco, nel 2014, sono stato premiato con altre 40 persone di tutto il mondo, con il riconoscimento Unsung Hero of Compassion (Eroi silenziosi della compassione n.d.r.). Sono state premiate persone che avevano creato attività destinate alle fasce di popolazione più fragili. La costruzione di centri per l’educazione e l’accoglienza, la creazione di piccole aziende familiari in zone di guerra per estirpare la povertà che alimenta le file del terrorismo, oppure progetti di pace e riconciliazione fra le famiglie nei territori occupati , come quello realizzato insieme da un palestinese e un israeliano. Mi ha molto colpito il progetto di una ragazza che ha realizzato in Sud America una serie di biblioteche pubbliche per favore l'alfabetizzazione e la cultura».