Si susseguono di continuo le giornate “dedicate a…”. Riguardano temi più o meno significativi, diventano a volte occasioni perdute, celebrazioni insignificanti o di parte. Ma il 25 novembre è dedicato alle donne vittime di violenza. Agghiacciati dall’orrore per la morte della giovane Giulia, ci chiediamo smarriti a che servano rabbia, dichiarazioni, nuove leggi. E come sono cresciuti tanti “bravi ragazzi”. Ogni giorno si allunga la catena di delitti, stupri, che nessuna panchina rossa o le di scarpe scarlatte come il sangue riesce a spezzare. Legami tossici, mai affettivi.
Sottoculture che negano a chi nasce femmina libertà e dignità. Ogni giorno troppe donne, in famiglia, sul lavoro, subiscono umiliazioni: persecuzioni maniacali, avances ricattatorie, percosse, stipendi ridotti, licenziamenti ad hoc che impediscono il traguardo dell’autonomia, l’aspirazione naturale a una famiglia. E poi la paura: a muoversi, incontrare, viaggiare, abitare la notte. Eppure viviamo nella parte del mondo che parifica e tutela i diritti della persona. A tratti riusciamo a indignarci per le ragazze iraniane, per le giovani costrette a pratiche forzate e mortificanti in tanti Paesi africani. A tratti però, perché scordiamo in fretta o accettiamo per indifferenza, giustifichiamo perfino, per prese di posizione ideologiche che non ci fanno nemmeno più gridare all’ingiustizia.
Allora, celebriamo la giornata contro la violenza sulle donne. Ma cominciamo dalle nostre case, educando i nostri figli: rispetto, condivisione, sensibilità e un amore che non sia mai possesso, forza d’animo al posto di quella fisica, amicizia sincera al posto del branco. Possiamo educare le nostre figlie: coscienza di sé, della propria meravigliosa diversità, prudenza (era una virtù, un tempo), non la rincorsa a replicare modelli maschili, negando la propria identità, e poi dialogo, condivisione, solidarietà.
In queste settimane sta spopolando, con un successo inatteso, dilagante, trasversale rispetto all’età e al genere, alla cultura e alla geografia, il film di Paola Cortellesi, C’è ancora domani. Non parliamo della trama, dello stile, se pur è notevole il garbo, il tocco leggero nel trattare la storia di una donna vessata e ciononostante capace di un silenzioso ma potente riscatto.
Certo, la protagonista non rappresenta per fortuna tutte le donne del Dopoguerra. Ci sono state le donne della Resistenza, le madri costituenti e un popolo di lavoratrici presenti nei movimenti sindacali, nell’associazionismo (penso, per esempio, alla libera e ferma autorevolezza di Armida Barelli). Ma bisogna riflettere sull’entusiasmo degli spettatori, sul tam tam contagioso che raduna giovani e anziani, pronti ad applaudire come a teatro ai titoli di coda. Questo film tocca un punto dolente, un nervo scoperto che ci imbarazza o ci fa soffrire. Fa ricordare, ragionare, paragonare, sprona alla dignità, al coraggio.
E queste reazioni ci mostrano che c’è del buono che cova nel profondo dei nostri cuori.