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«Pensiamo allo Yemen, alla Siria, all’Afghanistan», se questi Paesi «non avessero le armi, non farebbero la guerra» perché «noi, la ricca Europa, l’America, vende le armi per ammazzare i bambini, per ammazzare la gente, siamo noi a fare le differenze! E questa cosa voi dovete dirla chiaramente, in faccia, senza paura».
Papa Francesco parla a braccio e dialoga a lungo con gli studenti e i docenti del Collegio San Carlo di Milano ricevuti sabato mattina nell’Aula Paolo VI in occasione dei 150 anni dell’Istituto fondato nel 1869. Oggi è una scuola paritaria cattolica che conta 1.950 studenti di ogni età e 220 insegnanti. Tra i suoi studenti anche Achille Ratti, che diverrà Papa Pio XI. Francesco, rispondendo alle domande di alcuni ragazzi, insegnanti e genitori, tocca vari temi. Anzitutto, rispondendo alla prima domanda, ribadisce che siamo noi «con un sistema economico ingiusto a fare la differenza, a fare che i bambini siano affamati!» e spiega: «Ah, Papa, non sapevo che lei fosse comunista”, qualcuno può dirmi… No! Questo ci ha insegnato Gesù e quando noi andremo lì, davanti Gesù, ci dirà: grazie, perché ero affamato e mi hai dato da mangiare. E a coloro che con questo sistema uccidono di fame i bambini e la gente, dirà: no, tu vattene, perché ero affamato e non mi hai guardato. È buono questo delle differenze, andare a questo protocollo sul quale noi saremo giudicati, Matteo 25. Noi facciamo le differenze». Francesco ricorda inoltre che «sulla coscienza di un popolo che fabbrica le armi e le vende c’è la morte di ogni bambino, di ogni persona, c’è la distruzione delle famiglie». Nel mondo ci sono oltre 900 milioni di mine antiuomo, e quando un povero contadino va a lavorare la terra, morirà o resterà mutilato. Questo non lo ha fatto Dio, «tu l’hai fatto, noi, la mia patria, il mio Paese», sottolinea ancora richiamando l’esperienza di un giovane ingegnere al Sinodo: aveva vinto un concorso per lavorare in una fabbrica dove si facevano anche armi ma non ha voluto mettere le sue mani e la sua intelligenza per fare cose che avrebbero ucciso altre persone.
«Il bullismo è una dichiarazione di guerra»
Il Papa affronta anche una piaga che affligge il mondo giovanile, quella del bullismo: «Parliamo della scuola, nella tua classe, quando arriva un bambino, un ragazzo un po’ forse troppo gonfio, che non sa giocare, chi è che inventa e organizza il bullying? E’ Dio? Siete voi! E ogni volta che voi fate il bullying, ogni volta, voi fate con questo gesto una dichiarazione di guerra. Tutti noi abbiamo dentro il seme della distruzione degli altri. Perché abbiamo sempre quella tendenza a fare delle differenze e arricchirci dalla povertà degli altri».
Un’insegnante, Silvia, chiede al Pontefice come poter trasmettere al meglio, agli studenti, valori radicati nella cultura cristiana e, al tempo stesso, conciliarli con l’educazione all’incontro con le altre culture.La prima parola chiave è quella di essere radicati. Il Papa ricorda che, secondo la scuola di Bauman, il cui ultimo libro è Nati liquidi, il male di oggi è la liquidità, ma – nota – la traduzione tedesca usa la parola “sradicati”. La liquidità consiste proprio nel non saper trovare la propria identità, confrontarsi con la propria storia, quella del proprio popolo, quella del cristianesimo: «i valori sono quelli», ricorda ancora Francesco che esorta i giovani a nutrirsi delle radici, annaffiarle, e per questo lui consiglia spesso di parlare con gli anziani che «sono la memoria del popolo». La generazione intermedia, che è stata quella del cambiamento, «non è tanto capace» oggi di trasmettere i valori come invece gli anziani.
La seconda cosa essenziale è l’identità senza la quale non si può fare una cultura del dialogo. «C’è gente che non sa quale sia la sua identità e vive delle mode«, di fuochi d’artificio che dopo cinque minuti spariscono, «Noi», sottolinea Francesco, «non siamo funghi, nati soli, no: siamo gente nata in famiglia, in un popolo e tante volte questa cultura liquida ci fa dimenticare l’appartenenza a un popolo. Una critica che io farei, come è pericoloso, è la mancanza di patriottismo. Patriottismo non è andare a cantare l’inno nazionale o fare un omaggio alla bandiera: il patriottismo è appartenenza a una terra, a una storia, a una cultura … e questa è l’identità. Identità significa appartenenza. Non si può avere identità senza appartenenza. Se io voglio sapere chi sono io, devo farmi la domanda: “A chi appartengo».


«Non bisogna avere paura dei migranti»
La terza dimensione essenziale è quella di non avere paura dell’incontro con l’altro, della multietnicità, della multiculturalità. L’acqua distillata è la cosa più pura ma non si sente il sapore e non serve per dissetarsi. Non bisogna quindi avere paura dei migranti, ribadisce Francesco: «Ma, Padre, i migranti …” – i migranti, siamo noi! Gesù è stato un migrante. Non avere paura dei migranti. “Ma sono delinquenti!” – anche noi, ne abbiamo tanti: la mafia non è stata inventata dai nigeriani; è un “valore” nazionale, eh? La mafia è nostra, made in Italia: è nostra. Tutti abbiamo la possibilità di essere delinquenti. I migranti sono coloro che ci portano ricchezze, sempre. Anche l’Europa è stata fatta da migranti! I migranti, i barbari, i celti, tutti questi che venivano dal Nord e hanno portato le culture, si è accresciuta così, con la contrapposizione delle culture. Ma oggi, state attenti a questo: oggi c’è la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare i muri, muri nel cuore, muri nella terra per impedire questo incontro con altre culture, con altra gente. E chi alza un muro, chi costruisce un muro finirà schiavo dentro ai muri che ha costruito, senza orizzonti. Perché gli manca questa alterità. “Ma Padre, noi dobbiamo accogliere tutti i migranti?” – il cuore aperto per accogliere, prima di tutto. Se io ho il cuore razzista, devo esaminare bene perché e convertirmi».
In secondo luogo, i migranti vanno integrati, prosegue il Papa, perché prendano i nostri valori e noi conosciamo i loro. Ma per integrare, i governanti devono «fare dei calcoli« per capire la capacità che ha il Paese di integrare. Tuttavia, accogliere significa diventare più ricchi.
«Insegnate ai ragazzi ad avviare processi, non occupare spazi»
Francesco si rivolge ai professori e li avverte che per essere un buon insegnante bisogna «mettere tutta la carne sulla griglia», usando un’espressione argentina, che indica non solo mettercela tutta ma giocare tutto di sé stessi. Nella risposta alla terza domanda, quella di un’insegnante di sostegno, il Papa richiama infatti alcune caratteristiche fondamentali per essere un buon educatore. Prima di tutto bisogna offrire testimonianza, altrimenti, se non si è capaci, «si converta o scelga un altro mestiere più scientifico«, dice il Papa perché per educare serve la testimonianza. E poi amorevolezza, capacità di accarezzare le anime, con la pazienza della persuasione.
E soprattutto raccomanda: «Insegnate ai giovani ad avviare processi e non occupare spazi! La gente che è educata ad occupare spazi, finisce soltanto nella concorrenza per arrivare ad un posto. Invece, chi è educato ad avviare processi, gioca sul tempo, non sul momento, non sugli spazi. Il tempo è superiore allo spazio. Giocare sul tempo, avviare processi». Infine, rispondendo alla domanda di una madre, il Papa esorta a dare soprattutto vicinanza ai bambini più piccoli. Ai giovani bisogna invece insegnare a camminare, non da soli, in gruppo, «lasciarli cadere, che imparino, ma sappiano che la caduta non è un fallimento».
È una prova della vita e quindi bisogna aiutarli a rialzarsi. Ed è l’unico momento in cui è lecito guardare qualcuno dall’alto in basso. Centrale è che ci sia sempre la comunità, il gruppo, gli amici che si sostengono l’un l’altro. Poi agli educatori quando i ragazzi dell’ultimo corso se ne vanno definitivamente, e soprattutto ai genitori quando i figli si sposano, il Papa ricorda quella che gli psicologi chiamano “sindrome del nido vuoto”. «Non abbiate paura della solitudine», è una solitudine feconda, sostiene il Papa, perché i figli stanno facendo altri nidi, culturali, scientifici, sociali. «Il nido nella famiglia si riempirà con i nipotini», conclude il Papa.





