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Quel Ponte che non c'è più e la fragilità dei nostri sogni

28/06/2019  Il Morandi è stato abbattuto. Genova è cambiata. Fu inaugurato nel 1967, anno ebbro di speranza per il futuro in cui l’Italia correva veloce. Ma l’abbattimento del viadotto ci ricorda che tutto inesorabilmente finisce. Come ricordava, in quell’anno, una canzone di Don Backy

I simboli sono fatti per durare. A lungo, possibilmente per sempre. Dalle 9.33 del 28 giugno 2019 il Ponte Morandi di Genova non c’è più. Demolito in sei secondi. Un applauso, forse di sollievo, ha salutato la spettacolare operazione preparata nei minimi dettagli. La città della Lanterna cambia volto. Quel ponte, prima di diventare tragedia, era simbolo di orgoglio, spensieratezza, forza, velocità. Su quel viadotto è transitato un pezzo di storia d'Italia: gli anni del boom economico e della natalità fiorente ma anche quelli bui del terrorismo rosso e nero e  della dismissione delle grandi aziende a partecipazione statale. Ha visto il porto andare in agonia e poi riprendersi.  Chi s’immaginava in quel 1967 – quando venne inaugurato il 4 settembre alla presenza del presidente della Repubblica Saragat – che sarebbe andata a finire così?

Un anno cerniera, il 1967. O crisalide, come l’ha definito qualcuno, per il cambiamento (che fa solo intuire) e la voglia di futuro che la fa da padrona. Resistono quelle abitudini borghesi legate al benessere del boom economico. Ogni famiglia ha in casa il salotto buono, dove si entra solo per le feste comandate o nei grandi eventi. Non si usa molto ma l’importante è avercelo. Con qualche sacrificio ci si può permettere anche la seconda casa al mare o in campagna. Ma se i ricchi vanno a Cortina o a Forte dei Marmi, gli altri ripiegano su zone più vicine: «Ho preso una casetta a Viareggio!». Come a dire, in Versilia ci arrivo in dieci minuti. Tutti, indistintamente, corrono a comprare un automobile. L’Italia corre ma senza autovelox. E i piani delle infrastrutture si adeguano. Basta dare un’occhiata alla pubblicità: ovunque dilagano slogan che inneggiano alla velocità: «Supercortemaggiore, la potente benzina italiana». C’è un pizzico di nazionalismo che si traduce nell’orgoglio dei padri di famiglia in visita alle mogli in vacanza che si vantano dei tempi di percorrenza sempre più veloci e roboanti. «Con Api si vola», sorride Domenico Modugno in un’altra pubblicità cult di Carosello. Il Ponte Morandi viene consegnato al Paese dopo quattro anni di lavori serrati. Non poteva che essere il 1967 l’anno dell’inaugurazione ufficiale. «Il grande ponte della Camionale», scrive La Stampa.

Le macerie che restano dopo la demolizione definitiva dei piloni 10 e 11 del Ponte Morandi (Ansa)
Le macerie che restano dopo la demolizione definitiva dei piloni 10 e 11 del Ponte Morandi (Ansa)

Autorizzati a sognare (ma don Backy ci riporta alla realtà)

Qualche mese dopo, il 3 dicembre, a Città del Capo il chirurgo Christiaan Barnard effettua il primo trapianto di cuore della storia. Il paziente zero è il lituano Louis Washkansky. Morirà di polmonite diciotto giorni dopo, il 21 dicembre. Dalla speranza alla delusione nel giro di pochi giorni. Ma il dado è tratto. Siamo tutti autorizzati a sognare. Volano le automobili, se ben carburate. Vola la scienza, in grado di cambiare pezzi del corpo umano come in un autoricambi. A Sanremo è l’anno della morte tragica di Luigi Tenco. Ma è anche l’anno di una canzone-capolavoro: L’immensità. La canta Don Backy e sembra già vedere oltre l’ossessione di futuro di quegli anni: «Io son sicuro che, per ogni goccia / per ogni goccia che cadrà, un nuovo fiore nascerà / e su quel fiore una farfalla volerà / Io son sicuro che, in questa grande immensità / qualcuno pensa un poco a me / non mi scorderà / Sì, io lo so / tutta la vita / sempre solo non sarò / un giorno troverò / un po’ d’amore anche per me / per me che sono nullità / nell’immensità».

Quella società di fine anni Sessanta aveva lasciato briglia sciolta ai sogni, ogni cosa era lì, a portata di mano, l'immensità non fa paura ma può essere dominata. A Genova c’è la corsa a prender casa sotto il “Morandi”, con quel viale alberato con le case dei ferrovieri da un lato e i binari dell’altro, entrati nel nostro immaginario collettivo dopo la tragedia di un anno fa. Con la demolizione del Ponte, sparisce anche quella via dedicata al partigiano e martire della Resistenza Walter Fillak e che teneva insieme il quartiere di Certosa e la Valpolcevera operaia e degli immigrati arrivati dal Sud per un’esistenza più dignitosa. «Su quel ponte è passata tanta Italia, ci faceva sentire importanti», ha detto il signor Vincenzo che ha assistito all’ultimo atto davanti alla Tv. L’enorme nube di polvere provocata dalla caduta dei piloni è stata spinta verso i monti da una leggera e provvidenziale brezza di mare.

In pochi minuti la nube si è dissolta dall’area del cantiere e si è dispersa tra le colline della Valpolcevera. Tutto crolla, tutto finisce, tutto (chissà quando) ricomincia. Proprio come cantava Don Backy: «Sì, io lo so / tutta la vita sempre solo non sarò / e un giorno io saprò / d’essere un piccolo pensiero / nella più grande immensità / del suo cielo».

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