«Sa che cosa in qualche modo mi conforta in questa festa inedita e triste?». Roberto Rossini, 55 anni, presidente nazionale delle Acli, parla dalla sua Brescia, chiuso in casa come tutti, tra una call conference e una videointervista: «Mi fa piacere che papa Franceasco abbia accettato di celebrare la Messa del Primo maggio nella cappella di Santa Marta alla presenza della statua di san Giuseppe artigiano fatta realizzare dalle Acli nel 1956, l'anno dopo a quello in cui Pio XII volle dedicare l'inizio del mese mariano alla memoria del padre putativo di Gesù. Appena gliel'abbiamo proposto, Bergoglio ha subito accettato. Un bel segno di riconoscenza per i lavoratori. Soprattutto un segno che dimostra come il Santo Padre ben comprenda i gravi problemi che si agitano in queste settimane».
La festa dei lavoratori quest’anno non poteva avere un retrogusto più amaro...
«È vero. All’emergenza sanitaria, con il suo bagaglio di lutti e di dolore, si somma l’emergenza sociale con centinaia di migliaia di imprese e attività ferme, milioni di lavoratori in cassa integrazione, con tanti disoccupati, con un numero crescente di nuovi poveri. Se guardiamo al passato, l’immagine che abbiamo di fronte è quella di un’Italia che deve ripartire e ritrovare la sua unità intorno alla Carta Costituzionale. È il legame con il lavoro che fonda l’Italia, che dà una forma alla nostra vita quotidiana personale e collettiva».
Artticolo 1: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»...
«Già. Oggi più che mai, però, credo che sia legittimo dirlo anche in un altro modo...».
Cioé?
«È il lavoro che fonda l'Italia. Senza un'occupazione non c'è reddito. Ma svapora anche la dignità personale. E si lacera il tessuto sociale»
Cosa fare allora?
«Dobbiamo contemporaneamente intervenire sull’emergenza e progettare il futuro del Paese, gettando le basi per un nuovo piano di crescita e sviluppo. Va fatto un investimento vero sulla scuola e sulla formazione, perché lavoreremo in un contesto mutato e ancora condizionato dall’esistenza del virus. Il mercato del lavoro sta cambiando, proiettato sempre di più verso nuove forme, tra cui lo smart working, come dimostra l’esperienza di questi mesi, e in generale il ruolo della tecnologia, come dimostrano le applicazioni dell’Industria 4.0. In questo contesto dovremo monitorare con attenzione i più deboli e i più fragili. Il distanziamento fisico rischia di trasformarsi in distanziamento economico, poi sociale e infine umano».
Più nel dettaglio?
«Almeno tre questioni, tre punti. Il primo: cambiando natura e tempi del lavoro, cambieranno i tempi delle città. A questo scopo sarà necessario un piano degli orari delle città, che tenga presente “il tutto”, perché tutto è collegato. Il secondo: l'elettronica collegherà e farà funzionare molte realtà. La riconfigurazione e il potenziamento dei servizi pubblici e commerciali si baserà su sistemi digitali sempre più avanzati. La tecnologia sarà usata anche per il controllo del Covid (es. strumenti wearable), fissando bene i limiti al controllo sul lavoratore. Il terzo: il ruolo del welfare sarà essenziale nel sostenere in modo intelligente e concreto i tempi, i redditi, la salute, l'assistenza, la previdenza e la formazione al lavoro, in particolare le politiche attive del lavoro. Servirà un welfare più potente. Tutte le misure a sostegno del reddito saranno le benvenute, soprattutto in fase di emergenza. Dopo di ché si dovranno mettere a punto delle politiche anche a sostegno del lavoro, coinvolgendo il sindacato e l'associazionismo economico e sociale. Di fronte a cambiamenti così grandi bisognerà porre particolare attenzione ai più deboli e ai più fragili. Chi è forte, se la caverà comunque. Chi è debole rischierà di indebolirsi di più».