Da sinistra, il patriarca ortodosso di Mosca e di tutta la Russia Kirill, 75 anni, e Vladimir Putin, 69. Tutte le fotografie di questo servizio sono dell'agenzia Ansa.
La predicazione del Patriarca di una grande chiesa, quale quella russa, merita rispetto e attenzione, nel tentativo di comprenderne i contenuti. Ma, nel caso del sermone tenuto dal patriarca Kirill al termine della divina liturgia celebrata nella domenica del perdono (6 marzo), più mi sforzo di capirlo, meno lo trovo condivisibile, al di là delle semplificazioni giornalistiche che si leggono sulla stampa o si ascoltano alla radio o alla TV. Si racconta che allorché nelle chiese adiacenti al ghetto di Roma, arrivavano predicatori che costringevano gli ebrei ad ascoltare le loro invettive antisemite, nelle quali li si accusava di deicidio, essi turavano le loro orecchie con dei tappi di cera, onde eludere l’ascolto. Francamente la tentazione di consigliare un analogo atteggiamento nei confronti di questo malaugurato e crudele sermone è forte, tuttavia, facendo affidamento sulle capacità critiche dei lettori, offro loro una lettura/interpretazione, mentre al tempo stesso prendo le distanze dalla teologia che è sottesa a questa predicazione.
E si tratta di teologia, perché opzioni così radicali, come quella di una guerra (non una semplice “azione militare” come ha detto papa Francesco), sottendono sempre e comunque una visione dell’uomo, del mondo e di Dio, che contribuiscono a rivelare e smascherare, qualora ve ne fosse bisogno. Non si tratta di inventare un supporto ideologico per tali scelte, né di auspicare efferate guerre di religione o conflitti di civiltà, ma semplicemente di mostrarne il background culturale e quindi anche filosofico-teologico. Tutto ciò nella piena consapevolezza della complessità delle questioni in gioco e dell’impossibilità di pronunziare giudizi secondo la logica binaria del bene vs male, vero vs falso. Assumendo tale intento, il pensatore sloveno Slavoj Žižek, sulle pagine del quotidiano torinese La Stampa, in un intervento particolarmente illuminante, pubblicato lo scorso 28 febbraio, si è fatto carico di svelare al grande pubblico nostrano le fonti di ispirazione teologico-filosofiche del presidente russo Vladimir Putin, indicando quella remota nella figura del teologo politico Ivan Ilin, espulso dall’Unione sovietica, ma tanto oppositore del comunismo quanto del liberalismo occidentale. Le sue opere, ci informa Žižek, vengono diffuse largamente per impulso del leader, con particolare attenzione verso i burocrati e le reclute delle forze armate. Efficace e significativa la sintesi del pensiero teo-politico di Ilin: «per cui per Stato si intende una comunità organica guidata da un monarca paterno», sicché la democrazia è un semplice rituale, in quanto si vota semplicemente per affermare il proprio sostegno al capo, che non è legittimato o scelto dal voto popolare. Sempre secondo il pensatore sloveno, l’attuale filosofo di corte di Putin (la sua fonte prossima), tale Aleksander Dugin, ricalcherebbe il pensiero di Ilin, aggiungendovi un effetto postmodernista.
Tornando al sermone del patriarca, in margine ad esso mi limito ad alcune considerazioni, che confermano l’interpretazione teo-logica della tragedia che stiamo vivendo, da me avanzata. Esso, infatti, rivela come sia in atto un conflitto con l’Occidente e la sua cultura, così come avevo affermato in un editoriale apparso su Avvenire il 3 marzo scorso, ove ponevo la domanda: chi ha paura dell’Occidente, traendo spunto da quanto affermato da un mio dottorando ucraino, secondo il quale «qui in Italia si crede che sia una questione legata alla Nato, all’Unione Europea. No, è solo questione di libertà». E la questione della libertà è squisitamente filosofica e teologica, oltre che sociopolitica e culturale. A tal proposito aggiungevo che l’Occidente, soprattutto quando è capace di laicità inclusiva, non si stanca di affermare il diritto alla libertà, con tutti i rischi che tale orizzonte comporta, per cui certamente dobbiamo vigilare perché esso non si trasformi in un libertinismo nocivo per l’umano e la sua struttura fondamentale, ma non dobbiamo né possiamo cessare di custodirlo di fronte a tutti i tentativi di negarlo e calpestarlo.
Questo lo hanno compreso sia il patriarca ortodosso della chiesa autocefala dell’Ucraina, Filarete, in comunione con Bartolomeo (patriarca di Costantinopoli), sia - e la cosa è ancor più significativa e meno ovvia - il patriarca Onofrio, della chiesa filorussa ucraina, che ha avuto parole decise e inequivocabili contro il conflitto definito “fratricida”: «Come primate della Chiesa ortodossa ucraina (filorussa) mi rivolto ai singoli e a tutti i cittadini ucraini. Al di là dei problemi precedenti, sfortunatamente la Russia ha lanciato operazioni militari contro l’Ucraina. In questo tragico momento esorto: non fatevi prendere dal panico, siate coraggiosi e mostrate l’amore per la patria e per gli altri. Vi esorto anzitutto a intensificare la preghiera penitenziale per il nostro paese, per il nostro esercito e il nostro popolo. Vi chiedo di dimenticare gli scontri reciproci e le incomprensioni per unirci nell’amore di Dio e della nostra patria. […] Difendendo fino all’ultimo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, ci appelliamo al presidente della Russia perché cessi immediatamente questa guerra fratricida».
I vescovi europei giorni or sono avevano denunciato il “desolante silenzio” del patriarca di tutte le Russie, come riferito dalla nostra rivista, ed ecco la sua risposta, che avremmo preferito non ascoltare, dalla quale si evince una visione dell’Occidente permissivista e corrotto, con riferimento al gay pride (oltre che alla situazione dello “sterminio” nel Donbass filorusso), per cui la guerra sarebbe giusta e necessaria, in quanto a difesa dei propri valori e della propria fede contro gli attacchi della cultura occidentale. In tal senso non sarebbe stato Putin a sferrare l’attacco, ma sarebbe intervenuto militarmente non per estendere il proprio potere politico ed economico, bensì per difendere l’unico popolo russo (di cui gli ucraini sarebbero parte integrante) dalle pretese espansive del mondo europeo e della Nato. Il patriarca giunge ad affermare: «Tutto questo dimostra che siamo impegnati in una lotta che non ha un significato fisico, ma metafisico». Ma evidentemente la loro metafisica (quella di Putin e di Kirill, ma non certamente del popolo russo e in particolare di quanti, intellettuali e non, rischiano la galera per manifestare il loro dissenso) non è né può essere la nostra metafisica.
Rispetto al giudizio moralistico sulla cultura occidentale non posso non rilevare una sintomatica coincidenza su quanto esprimono, anche in forma violenta, i fondamentalisti religiosi. Quanto a noi, non solo non possiamo non dissentire da questa visione della cultura occidentale e della libertà di cui è portatrice, ma soprattutto dobbiamo rilevare una palese contraddizione nelle parole di Kirill. Egli, infatti, proprio prendendo spunto dal fatto che ha appena celebrato la “domenica del perdono” sembrerebbe distinguere il peccato dal peccatore, con un passaggio decisamente condivisibile: «È oggi, nella Domenica del Perdono, che dobbiamo compiere questa impresa di abnegazione dai nostri peccati e dalle nostre ingiustizie, l’impresa di abbandonarci nelle mani di Dio e l’impresa più importante di perdonare coloro che ci hanno fatto del male». Ma se questa fondamentale distinzione fra peccato da denunciare e condannare e peccatore da perdonare regge, ecco che ogni imposizione violenta e ogni guerra in nome della giustizia e della verità è da condannarsi, perché uccide i presunti peccatori, sulla cui fede solo Dio può giudicare.
La guerra uccide le persone non il peccato e per questo è sempre e comunque da condannare e respingere. Se si fosse coerenti con la necessità di intraprendere azioni belliche contro i peccatori, poiché siamo un popolo di peccatori sia a Oriente che a Occidente, il Signore dovrebbe annientarci o dovremmo scannarci fra noi, invece ci accoglie e ci perdona. Un perdono che auguriamo anche al patriarca russo, al quale ci unisce il battesimo, che ci ha donato piena libertà, in nome della quale dissentiamo profondamente da quanto questo fratello nella fede ha detto, confondendo e non guidando evangelicamente il suo popolo.