La memoria è importante. Ma la troppa memoria a volte
impedisce di vivere a causa del ricordo di episodi negativi che possono
causare disagio, dolore e anche traumi persistenti, tanto che spesso e
volentieri vorremmo cancellarli dal nostro vissuto.
In un saggio scritto a quattro mani, Manipolare la memoria. Scienza ed etica della rimozione dei ricordi (Mondadori), Andrea Lavazza, studioso di scienze cognitive, e Silvia Inglese, neuropsicologa, analizzano questo tema rilevando i problemi etici che porterebbe la “pillola dell’oblio”.
Dottoressa Inglese, cancellare le esperienze negative è una
prospettiva che ora diventa possibile? Esistono farmaci o tecniche in
grado di “eliminare” in maniera selettiva determinati ricordi?
«Che i ricordi negativi si fissino nella memoria è utile per la nostra
stessa sopravvivenza. Non si dice d’altra parte che bisogna imparare a
evitare i pericoli e si migliora sbagliando? Quello che però in molti
casi è, tutto sommato, un vantaggio può diventare, per alcune persone in
alcuni casi, un vero disturbo, causa di sofferenza e di incapacità di
vivere un’esistenza normale. Vittime di un grave incidente, di
un’aggressione, così come sopravvissuti di guerre o catastrofi rivivono
continuamente gli eventi dolorosi e la loro mente è “sequestrata” da
quei pensieri. È un circolo vizioso, che non fa che peggiorare la
situazione di disagio: si tratta di una vera patologia che viene
definita disturbo post-traumatico da stress. Di fronte agli insuccessi
della psicoterapia e dei farmaci disponibili, si è pensato che una
strada potesse essere quella della “cancellazione” dei ricordi dolorosi.
Oggi siamo nella fase iniziale, eppure alcuni passi importanti sono
stati già compiuti, almeno con la possibilità di “attenuare” più che
rimuovere le memorie traumatiche».
Negli ultimi tempi sono stati condotti diversi esperimenti a
Tolosa, in Francia, con una molecola, il propranololo, che sarebbe in
grado di agire sui ricordi negativi. E la notizia ha suscitato un vasto
dibattito.
«Si tratta proprio del filone più “consolidato”, se così si può dire,
delle ricerche in corso da una ventina di anni. Il propranololo è il
principio attivo di alcuni farmaci che contrastano l’ipertensione.
Studiosi americani hanno scoperto che esso agisce anche sul complesso
delle reazioni emozionali che accompagnano un’esperienza forte, ad
esempio un’esperienza di spavento, come può accadere in un incidente
stradale grave. In queste occasioni, si scatena in alcune aree
specifiche del nostro cervello un rapido e complesso processo chimico
che porta a fissare la memoria e suscita quelle sensazioni psicologiche e
corporee che si associano alla paura. Il propranololo, se assunto entro
poche ore dall’evento, sembra in grado di attenuare/interferire con
quel processo. In sostanza, a persone che arrivano nei pronto soccorso
(con il loro consenso) viene somministrata una certa dose di
propranololo e, in seguito, si valuta quante di esse e in che misura
abbiano sviluppato un disturbo post-traumatico, anche rispetto a un
campione di persone con esperienze simili che non hanno assunto la
molecola. Quello che si è visto è che il farmaco riduce il trauma, nel
senso che i soggetti ricordano l’evento, ma senza il carico originario
di sofferenza. Questo però accade soltanto in una certa percentuale di
soggetti, su molti pazienti non ha alcun effetto. E, comunque, l’azione
del propranololo è oggetto di controversia scientifica. E c’è poi quella
etica».
In effetti, manipolare la memoria, come s’intitola
il suo libro, sembra porre alla scienza un serio problema etico. Queste
pratiche non sono un pericolo per l’integrità della persona? I cattivi
ricordi, sostengono i critici, fanno parte a pieno titolo della nostra
esperienza e quindi contribuiscono costruire la nostra identità. Che
cosa ne pensa?
«Molta parte del nostro libro è dedicata alla cosiddetta discussione
neuroetica, proprio perché si occupa delle ricadute morali, sociali e
legali degli interventi sul cervello. La memoria è certamente uno dei
nostri patrimoni più preziosi.
Tutte le esperienze che viviamo concorrono a renderci quello che siamo, tanto più lo fanno le esperienze importanti.
E tali sono anche gli episodi fortemente negativi o dolorosi. Posto che,
per vari motivi, la possibilità di rimuovere completamente un singolo
ricordo sembra davvero molto remota, va detto che qualsiasi intervento
sulla memoria va considerato con cautela (noi non ne parliamo, ma c’è
anche il tema del potenziamento della capacità di ricordare, che è
l’altra faccia della questione e che è in una fase di ricerca molto più
avanzata).
Se si potesse montare la memoria come si fa con un film, tagliando e
smontando, certamente le nostre stesse identità subirebbero un
cambiamento notevole.
Anche interventi meno drastici fanno però sorgere interrogativi
importanti: se la vittima di un’aggressione potesse rimuovere tutte le
emozioni collegate al fatto, forse non avrebbe più motivazioni per
testimoniare in tribunale contro l’autore del crimine; e, ancora, un
farmaco del genere potrebbe diventare un’arma in più per i
malintenzionati di qualunque tipo, che potrebbero in quel modo
cancellare i rimorsi di coscienza...».
Non c’è il rischio che l’idea di una rimozione del male e dei
cattivi ricordi tramite una pillola possa sostituire quel percorso lungo
e articolato di analisi e autoanalisi che avviene nelle varie forme di
psicoterapia o di meditazione, riflessione e lavoro su se stessi?
«Bisogna distinguere, a mio avviso, tra due situazioni. In genere,
dobbiamo fare i conti con i nostri fallimenti, con gli eventi negativi,
con il male che è presente nel mondo. Fare finta che non ci siano tutte
queste cose grazie a una pillola ci allontana dalla realtà e non ci fa
certo persone consapevoli e adulte, al massimo ci dà un po’ di svagata
assenza di dolore. Diverso è il caso di coloro che soffrono di gravi
forme di disturbo post-traumatico da stress: la loro esistenza è
pressoché annullata, a volte non hanno nemmeno la forza di uscire di
casa, perdono tutte le relazioni, rischiano il suicidio. Per esse non ci
sono attualmente cure efficaci e un intervento non troppo invasivo
sulla memoria potrebbe essere un prezzo accettabile da pagare».
In un mondo come quello attuale che cambia a ritmo vertiginoso e
brucia voracemente ogni tipo di esperienza, che cos’è la memoria? Un
fardello di cui liberarsi o un patrimonio prezioso da custodire?
«Come scriviamo nel libro, ci sembra che oggi convivano due
atteggiamenti verso la memoria, tenendo presente che la memoria
individuale (cui è essenziale il buon funzionamento del cervello) non è
la stessa cosa della memoria collettiva, fatta di tutti i segni esterni.
In generale, comunque, l’accelerazione degli eventi e il diffuso
apprezzamento della novità in quanto tale (pensiamo alla tecnologia e a
come sia normale cercare l’ultimo modello per rimpiazzare quello
“vecchio”, magari di pochi mesi) ci spingono a non dare molto valore
alla memoria, che è un guardare indietro, e di spingerci in un futuro
senza radici.
Dimenticare però significa essere condannati a ripetere gli stessi
errori del passato. D’altra parte, i mezzi digitali di cui oggi
disponiamo fanno sì che possiamo “fissare” ogni piccolo evento con una
foto, una frase scritta o detta, un filmato...
In questo modo, su piccola scala, corriamo un rischio opposto: quello di
non potere mai liberarci di una parte del nostro passato, di essere
legati a qualche piccolo errore che può rispuntare ogni momento sul web.
Il nostro cervello funziona così: continua a trattenere nuovi ricordi,
nel frattempo però ne lascia andare tanti, dettagli insignificanti o
episodi lontani e poco rilevanti. Ciò avviene “automaticamente”, e non
sempre nel modo ottimale per i nostri scopi. Trovare un equilibrio è
molto difficile. Ma la memoria è un elemento chiave delle nostre vite,
per questo farmaci in grado di rimuovere i ricordi suscitano insieme
grandi speranze e forti timori».