Teologo, biblista, docente di giudaismo
alla Facoltà teologica
dell’Italia settentrionale di Milano
per molti anni e di Antico testamento
agli Istituti di scienze religiose
delle università di Urbino e
Trento, Paolo De Benedetti è nato ad
Asti nel 1927. Membro della commissione
ecumenica e per il dialogo
interreligioso della diocesi di Milano,
è da sempre un uomo di cerniera
tra ebraismo e cristianesimo, innanzitutto
per motivi personali oltre che
per interesse umano e professionale.
Nato in una famiglia borghese, il
padre era ebreo e permise che a undici
anni fosse battezzato a patto
che l’educazione religiosa gliela impartisse
sua madre che era cattolica.
Liceo ad Asti, primo anno di filosofia
alla Cattolica – tra i compagni
di corso ricorda Emilio Tadini
– poi è passato a Torino. Per la Bibbia
e il giudaismo, De Benedetti è
autodidatta. Oltre all’ebraico, conosce
un po’ di babilonese, il siriaco,
l’aramaico, altre lingue orientali
le ha imparate negli anni dell’università
dal presidente del tribunale
di Asti Silvia Giacomoni.
Un’esistenza tutta dedicata al
pensiero, al dialogo, alla relazione
con ogni creatura. Paolo De Benedetti,
infatti, non è solo un grande
studioso, ma è soprattutto un uomo
che ha realizzato
nella sua vita molti dei
temi oggetto della sua
riflessione. Ha pubblicato
numerose opere
ed è uno dei pochi pensatori
contemporanei
che ha elaborato una
teologia degli animali: «Sono convinto
che un gatto va in paradiso».
La sua provenienza ebraica e il suo
essere cattolico uniti alla sua conoscenza
del giudaismo ne fanno un
personaggio unico nel panorama
del dialogo ebraico-cristiano.
Professore, la Nostra aetate ha
cambiato una storia di ostilità e persecuzioni
durata quasi venti secoli.
Da allora, la Chiesa nel suo insieme
ha fatto tutto il possibile per rimuovere
ogni sentimento antiebraico?
«Molto è dipeso dalla buona volontà
di alcuni e dalle singole iniziative.
L’impegno ad applicare la
Nostra aetate è dipeso dalla cultura
di ciascun operatore
pastorale. Perché coltivare
il dialogo ebraico-
cristiano richiede
una cultura che non
c’è quasi mai».
La Nostra aetate ha
però aperto la strada al dialogo...
«In un certo senso la Chiesa cattolica
ha reso più ufficiale e istituzionale
ciò che prima esisteva sottotraccia.
Chi era indifferente è rimasto tale.
Per me il dialogo è un fatto naturale:
quando mi chiedono se sono ebreo o
cristiano dico: “Di domenica sono cristiano
e di sabato sono ebreo”. Che
vuol dire coesistenza, non un giocherello.
Festeggio la Pasqua ebraica e
poi quella cristiana. Il venerdì mia sorella
e io andiamo dai parenti per il Seder
a Torino, sabato a Casale Monferrato
per il secondo Seder. E domenica
andiamo a messa».
Se tanti cristiani partecipassero
almeno una volta al Seder, ne rimarrebbero
affascinati. Trovandosi
di fronte all’eucaristia penserebbero
che Gesù è passato attraverso
il Seder nell’ultima cena...
«Sì, diciamo che la conoscenza o
la presa di coscienza delle radici può
rinnovare la fede. Negli ultimi venti
anni la Chiesa ha fatto passi da gigante.
Ma, come ho detto, occorre
una certa cultura: la conoscenza aiuta.
Vi racconto un piccolo aneddoto.
Qualche anno fa lavoravo ancora alla
Bompiani e, con la collaborazione
di una redattrice, stavo curando
un’enciclopedia. Allora, ho mandato
la redattrice da un libraio che conoscevo
dicendo che la mandavo io.
“Ah, è un ebreo, ma è una brava persona”,
dice il libraio. Questo tipo di
sentimento è duro a morire».
Soprattutto a livello popolare mi
pare che persista un atteggiamento
antisemita.
«Infatti, la cultura di base ancora
diffusa è così. Un giorno ho fatto
una conferenza in una biblioteca
molto bella in una città del Nord. Il
tema era la Resistenza sotto il
nazismo
in Germania. È stato inevitabile
a un certo punto parlare degli
ebrei. Ricordo a quel punto che un
signore si è alzato e ha detto: “Ah,
sono tremendi, io avevo un compagno
di classe che quando uno chiedeva
in prestito un pennino rispondeva
sempre: costa tanto. Sono tremendi
e riescono a fare sempre soldi”.
Siamo ancora tra i pregiudizi».
Quindi il dialogo ebraico-cristiano
è destinato a rimanere a livello
di élite?
«L’unica strada percorribile è la
formazione: bisogna studiare. Anche
a livello delle parrocchie non c’è
un’educazione di base.
Solo chi studia può raggiungere
una certa consapevolezza.
L’ebraismo
sia come storia sia
come studi teologici è
entrato nelle facoltà teologiche
tardi. Io, per
esempio, ho insegnato giudaismo alla
Facoltà teologica dell’Italia settentrionale
di Milano per una trentina
di anni. L’ho fatto chiamare giudaismo
e non ebraismo. Intendevo presentare
la religione ebraica come
qualcosa che c’è ancora e non solo
come un fatto storico: gli ebrei nella
Bibbia. Ho insegnato fino a quando
ho raggiunto il limite di età».
Suo padre era ebreo, lei è cattolico:
come vive la doppia identità?
«Ho fatto battesimo cresima e prima
comunione in un colpo solo a 11
anni. Dopo ho incominciato a studiare
ebraico. Ma nella mia famiglia
c’era molta assimilazione. Mio padre
aveva sposato una non ebrea quando
aveva 39 anni e la cerimonia è avvenuta
in chiesa. Ma non è stato facile.
Il parroco ha fatto in modo che si
potessero sposare perché mia madre
potesse mantenere il rapporto con la
Chiesa. In seguito mio padre si è fatto
battezzare per amore di sua moglie.
Lei non è che insistesse, ma era
una testimone così convincente. Intanto
ho fatto la specializzazione in
ebraico e in lingue semitiche. E sono
diventato poi assistente di ebraico alla
Cattolica; non significava
niente, facevo per
gli esami e basta».
Quindi è stato lo studio
che l’ha avvicinato
alle radici ebraiche?
«È il contrario, le radici
familiari mi hanno portato allo studio.
C’è la storia curiosa di quando
mio padre ha fatto il bar mitzvah (rito
ebraico di passaggio: i ragazzi lo
fanno all’età di 13 anni, le ragazze a
12 anni). Allora nessuno studiava veramente
l’ebraico, ma dovevano far
vedere che leggevano tre righe. Mia
nonna era non ebrea ma i figli li aveva
fatti andare in sinagoga, erano circoncisi
e andavano alla primaria
scuola ebraica. Abbiamo una foto
del gruppo di ragazzotti con i loro
maestri. Lo zio Rodolfo in prima fila.
E ci sono le pagelle dei nostri zii.
Quindi mio padre doveva fare il bar
mitzvah e fa finta di leggere in ebraico.
A un certo punto perde il filo. Il
rabbino gli dice in piemontese “bele
sì” (che significa in dialetto “proprio
qui”) e mio padre lo ha ripetuto come
se fosse una parola ebraica. Di lì
il libro Bele sì, ebrei ad Asti (di Maria
Luisa Giribaldi e Rose Marie Sardi,
editore Morcelliana), è una ricostruzione
della comunità ebraica del
tempo. Fino a tutto l’Ottocento qui
c’era un dialetto piemontese particolare,
intriso di parole ebraiche. Arrivano
i carabinieri, li chiamavano “i
sarfatim” e finisce così la battaglia.
Ma gli ebrei erano molto integrati e
anche in parte assimilati. Il nonno è
stato presidente della comunità, però
aveva il prosciutto in casa e mangiava
tutte le cose meno cacher del
mondo. Erano così, non molto osservanti.
Un nostro prozio era Isacco Alto,
segretario di Cavour, che poveretto
alle 6 di mattino doveva essere già
in ufficio. E se a Cavour veniva nella
notte qualche idea, lo chiamava, e
lui doveva correre al capezzale».
La comunità ebraica di Asti oggi
quante persone conta?
«Quasi nessuno ormai. C’è mia sorella
e io che siamo di origine ebraica,
i cugini figli di un fratello del nonno,
lo zio Aurelio. Uno è diventato
un po’ bigotto. L’altro figlio è stato
il pediatra della città, ha avuto cinque
figli tutti battezzati, però una
parte di loro sta riscoprendo le radici
ebraiche. Una cosa buffa: la nostra bisnonna si chiamava Dolcina. I
medici la consideravano sterile e invece
ha avuto 15 figli, quasi tutti maschi.
Poveretta, è morta a 59 anni».
La Chiesa dice che ricollegarsi alle
radici ebraiche può aiutare il cristianesimo;
che cosa significa concretamente?
«Direi che la Chiesa dal Concilio
in poi, ma anche prima attraverso
personalità di spicco, ha preso coscienza
dell’importanza di riconnettersi
alle radici. Però il dialogo
ebraico-cristiano richiede una cultura
sull’ebraismo. Normalmente si
pensa che l’ebraismo sia finito con
la nascita di Gesù e quindi che dopo
la sua morte l’ebraismo sia solo
una religione rifiutata dal cristianesimo.
E nessuno si sogna di vedere
Gesù come ebreo, ma solo come cristiano.
Gesù è rimasto invece ebreo
fino alla fine e questo ormai lo riconosce
ufficialmente la Chiesa».
Il cristianesimo che cos’è?
«Il cattolicesimo in
particolare ha subito
l’influenza del paganesimo
greco-romano.
Per secoli il cristianesimo
ha rigettato la sua
origine ebraica. Solo
negli ultimi decenni
c’è un forte interesse a
ricollegarsi alla radice
santa, di cui parla il cardinale Carlo
Maria Martini».
Quando durante la celebrazione
dell’eucaristia sente pronunciare
la formula in cui si cita la nuova alleanza,
cosa prova intimamente?
«Dio ha stretto l’alleanza sul monte
Sinai con il popolo ebraico, questa
alleanza non è mai stata revocata,
ma è stata estesa grazie a Gesù.
Io credo che la nuova alleanza non è
altro che il progetto di Dio di estendere
a tutto il mondo l’alleanza del
Sinai. Tutto sommato un ebreo potrebbe
rimanere ebreo anche se conosce
il cristianesimo: è l’estensione
dell’ebraismo a tutta l’umanità».
Quali sono i passi di vangelo che si
prestano a una lettura antigiudaica?
«Gesù predica l’amore per il
prossimo: le sue parole sono
un’esortazione a migliorare. Ma
non ha mai detto: dovete aderire a
un’altra religione».
Allora, che cosa ci divide oggi
dall’ebraismo?
«Nell’800 gli ebrei si sono posti il
problema di come coesistere con i
cristiani. La proposta che è venuta
fuori è che i cristiani riconoscano
l’ebraismo per gli ebrei, ossia che
non convertano gli ebrei. Dal canto
loro gli ebrei riconoscano il cristianesimo
per i cristiani. La divisione è
superabile ed è stata superata solo a
questa condizione: il diritto della
coesistenza di ebraismo e cristianesimo,
per cui in un certo senso Gesù
era un ebreo molto illuminato che
pensava alla via di salvezza per quelli
che non ce l’avevano: per i non
ebrei. Dio ha complicato un po’ le
cose, ma non ha mai pensato di far
sparire l’ebraismo, le sue promesse
non sono mai state revocate».
Chi è Gesù?
«Gesù è un ebreo e secondo me
diventa figlio di Dio dopo la risurrezione.
Questo punto ci allontana
dall’ebraismo. Ci sono due espressioni
a cui penso sovente
e che sono i cardini
del cristianesimo, ma
che in realtà suscitano
problemi enormi. Una è
“Figlio di Dio” e l’altra è
“Madre di Dio”. Non è
che io le neghi, assolutamente,
ma non finisco
mai di pensarci. Mi sono
immaginato una parabola: se vado
in paradiso, allora chiederò
all’angelo custode di accompagnarmi
da Freud che penso sia in paradiso.
Mi accompagnerà da Freud e io
gli dirò: “Professore, c’è qui in paradiso
una persona che ha bisogno di
lei”. E lui mi risponderà: “Chi è, come
si chiama?”. Io gli dirò: “Paolo
di Tarso”» (ride).
Come mai si è appassionato alla
teologia degli animali?
«Gli animali sono spirito di Dio.
Tutto ciò che ha avuto la vita è stato
poi distrutto dall’uomo. Ma la risurrezione
tocca anche gli animali.
Se non ci fosse, allora bisognerebbe
concludere che la morte è più
potente di Dio. Siccome questo
non si può dire, bisogna credere
nella risurrezione degli animali.
Troveremo tutti gli animaletti che
ci erano cari in paradiso. E qualche
volta prego per loro».
L'intervista intregrale è stata pubblicata nel libro di Giuseppe Altamore Dalla stessa radice. Ebrei e cristiani, un dialogo intrareligioso. Editore Lindau, 254 pagine, 22 euro.