Monsignor Sako con papa Francesco.,
Prima quella “N”
per contrassegnare le case dei cristiani. “N” come Nasara, cioè
cristiano, radice semantica che rimanda alla città di Gesù. Una “N”
cerchiata in rosso, avvertimento e minaccia, contrassegno per
indicare chi non ha più cittadinanza nel nuovo Califfato Islamico
che si estende dalla Siria fin in Iraq.
Poi il decreto dei miliziani
jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante pubblicato
due giorni fa per intimare ai cristiani di andare via oppure di
convertirsi immediatamente all’Islam. La situazione più drammatica
si registra a Mosul, seconda città dell’Iraq, dove i cristiani
caldei sono ormai un piccolo gruppo sparuto.
Al telefono da Bagdad il
Patriarca della Chiesa caldea, Mar Louis Raphael I Sako, racconta a Famiglia Cristiana il
dramma dei suoi fedeli e lancia un appello all’Occidente.
Una delle lettere di minaccia distribuite dalle milizie radicali islamiche dell'Isil. Foto Asianews.
- Sua Baeatitudine,
qual è la situazione a Mosul?
«Non c’è più
cittadinanza per i cristiani. Devono andarsene oppure convertirsi in
fretta all’Islam. Hanno segnato le loro case e chi decide di andare
via deve lasciare tutto perché i miliziani dell’Isis considerano
proprietà del neo-Califfato tutti i beni dei non musulmani».
- Lei cosa ha deciso
di fare?
«Ho invitato chi
può a lasciare la città, perché la loro vita è in pericolo. Anche
chi decide di restare e pagare la tassa al Califfato, la jizya, non
è al sicuro. Sono partiti in molti. In città restano solo i
cristiani anziani più poveri».
- Dove vanno?
«Questo è un
altro dramma, perché alle porte di Mosul chi lascia la città viene
depredato di tutto dai vestiti ai ricordi della famiglia all’auto.
Molti si incamminano piedi verso il nord dell’Iraq, il Kurdistan
governato curdi, che i peshmerga, cioè i leggendari guerriglieri
curdi sono riusciti a proteggere dall’avanzata dei miliziani
dell’Isis. Pochi scendono verso Bagdad. La maggior parte si rifugia
nella pianura attorno a Ninive, dove ci sono alcuni villaggi
letteralmente ingolfati di cristiani caldei che vengono da Mosul.
Buona parte delle famiglie si sta dirigendo verso il villaggio di
Dahuk».
- Si può fermare
l’esodo?
«No. Ed è molto
difficile per me dirlo, ma adesso ne va della loro vita e anche andar
via è molto pericoloso. Mosul è stata la prima città a cadere
sotto l’offensiva delle milizie islamiche. Sono fuggiti due
milioni di persone da tutta la zona, soprattutto musulmani. Ma in
città adesso non c’è alcuna autorità. Solo soprusi da parte
delle milizie islamiche senza alcuna possibilità di dialogo con
loro».
- Cosa può accadere
adesso?
«La guerra civile
con orrori peggiori di quelli che abbiamo visto fino ad oggi. Nei
giorni socesi il governo centrale di Bagdad ha ordinato alcuni raid
aerei, che non sono serviti a nulla e hanno aumentato la paura tra la
popolazione. Sappiamo che il governo intende riprendere Mosul con u n
attacco di terra. Sarà un massacro e arriveremo sicuramente a 4
milioni profughi».
- Cosa può fare la
comunità internazionale?
«Deve occuparsi
dell’Iraq, cosa che invece non fa. Non c’è un governo, governa
solo il caos. Noi stesi non troviamo interlocutori. Pariamo con i
membri del Parlamento, che ha letto il nuovo presidente, ma non c’è
ancora un presidente della repubblica né il primi ministro. La
Comunità internazionale deve imporre soluzioni concrete alla crisi
istituzionale di Bagdad. Solo con una maggiore stabilità interna si
potranno sbaragliare i fanatici. L’Iraq è stato abbandonato alle
sue lotte interne, la guerra del passato ha lasciato un Paese diviso
dove tutti sono sempre stati pronti a dar fuoco alle polveri. E noi
che abbiamo sempre invocato dialogo prima della violenza ora paghiamo
il prezzo più alto. Io non abbandono mai la speranza, ma questa
volta lo scenario che abbiamo davanti è davvero tragico».