Sul futuro del Kosovo, il più giovane Stato d’Europa nato dalla separazione dalla Serbia, si addensano nubi minacciose. Tra palazzi dati alle fiamme, Parlamento bloccato da lanci di lacrimogeni e attentati interetnici. Sabato 9 gennaio, una manifestazione dell’opposizione è degenerata in violenta battaglia nelle strade della capitale Pristina: 28 feriti, tra cui 24 poliziotti, una quarantina di arresti, lancio di bottiglie molotov e di pietre da parte dei manifestanti e di lacrimogeni dalla polizia. È stata incendiata anche una parte del palazzo del Governo, uno dei simboli dell’indipendenza proclamata unilateralmente dai kosovari nel 2008 e riconosciuta da 115 dei 193 paesi Onu. Tra di loro ci sono l’Italia, gli Stati Uniti, la maggior parte dei membri Ue, ma non la Spagna, il Vaticano, la Russia, la Cina, l’India e il Brasile. Intanto il Cio, il Comitato organizzatore delle Olimpiadi, ha approvato l’ammissione del Kosovo e a Rio de Janeiro 2016, per la prima volta, vedremo la bandiera gialloblù del Paese.
L'esodo di massa
Eppure, la “crisi kosovara” sta ormai diventando di lungo periodo. Un chiaro sintomo è stato l’esodo tra settembre 2014 e aprile 2015 120-140mila kosovari hanno lasciato il paese, di cui 87.495 hanno chiesto asilo politico negli Stati Ue, soprattutto in Germania. Domande quasi tutte respinte: la richiesta di protezione internazionale è difficilmente sostenibile se si “scappa” da un paese che tratta l’adesione all’Unione europea e in cui, accanto alle autorità locali, operano – con uno sforzo economico non di poco conto – le missioni dell’Ue, della Nato e dell’Onu. In ogni caso, non è un bel segno se in pochi mesi, a soli sette anni dai festeggiamenti per l’indipendenza, tra il 5 e l’8% della popolazione di un paese decide di andarsene.
Una seconda immagine degli ultimi mesi kosovari sono invece le sedute del Parlamento di Pristina sospese più volte tra nubi di gas. E, a seguire, la sede governativa incendiata il 9 gennaio. Qui la crisi è politica: va inserita nel clima di radicalizzazione nazionalista, che ruota attorno a due intese firmate dal Governo lo scorso agosto. La prima, con Belgrado, garantisce alla minoranza serba spazi di autonomia nella gestione di economia locale, sanità, istruzione, pianificazione rurale ed urbana, con la creazione dell'Associazione delle municipalità serbe. L'altro accordo stabilisce invece la demarcazione del confine tra Kosovo e Montenegro, lo stesso previsto dalla Costituzione jugoslava del 1974 ma che secondo i critici danneggia i presunti interessi kosovari.
Gli accordi contestati
Il governo di coalizione guidato da Isa Mustafa ha una maggioranza in Parlamento dei due terzi, ma da tre mesi l’opposizione più nazionalista cerca in ogni modo di bloccare la ratifica dei due accordi. Per ben sei volte, i deputati di Vetëvendosje! (Autodeterminazione!), un partito contrario a ogni concessione alla Serbia e favorevole all’annessione del Kosovo all’Albania (l’idea della Grande Albania), hanno lanciato gas lacrimogeno e spray al peperoncino in aula. Il 28 novembre il leader di Vetëvendosje! è stato arrestato con altri quattro deputati e una novantina di attivisti durante una protesta a Pristina in coincidenza con la festa nazionale in Albania; subito alcuni sostenitori hanno bruciato veicoli pubblici e distrutto le finestre di una stazione di polizia.
L’accordo contestato, firmato a Bruxelles il 25 agosto dai primi ministri serbo e kosovaro, è stato raggiunto grazie all’efficace mediazione dell’Unione europea. Si sapeva che nell’implementazione avrebbe fatto la differenza il grado di autonomia da attribuire all'Associazione delle municipalità serbe. Per superare l’impasse, il 2 dicembre è arrivato a Pristina anche il segretario Usa John Kerry e il tema è stato al centro della visita, il 23 dicembre, del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Il ruolo dell’Italia è di primo piano: sono italiani il capo della missione europea Eulex, il diplomatico Gabriele Meucci, e il generale Guglielmo Miglietta, che guida i cinquemila militari della forza multinazionale Nato presente dalla fine della guerra del 1999.
L’intesa della scorsa estate tra Serbia e Kosovo, sbloccando lo stallo creatosi con l’indipendenza del 2008, ha mostrato che nei Balcani l’Europa, se marcia unita, ha credito e può essere incisiva. Adesso la sfida è proseguire su questa strada, senza cedere alle derive nazionaliste. Altrimenti succederà quello che ha fatto intravedere una brutta intimidazione interetnica nella notte tra il 6 e il 7 dicembre scorso. Nell’enclave della minoranza serba a Gorazdevac, estremisti albanesi hanno sparato a più riprese contro due case, un’auto è stata data alle fiamme ed è stato danneggiato un monumento dedicato ai serbi uccisi nei bombardamenti Nato del 1999.