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domenica 20 aprile 2025
 
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L'11 settembre, la tragedia delle Torri e l'atroce fallimento della guerra al terrorismo

10/09/2021  Quel giorno New York vide morire 2996 persone di 90 Paesi differenti. Gli Usa e la coalizione creatasi hanno combattuto in Afghanistan e Iraq. Ma l'Europa ha registrato gli attacchi a Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles... Senza contare "i danni collaterali", ovvero le vittime civili dei bombardamenti. Il monito (inascoltato) di Giovanni Paolo II: «Mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell'umanità». L'analisi di Fulvio Scaglione

Ognuno di noi ha due 11 settembre. Quello collettivo, scolpito nel sacrificio delle 2.996 persone assassinate negli Usa in quel giorno del 2001, e quello personale. Il mio personale 11 settembre ha la data del 6 dicembre 2002. Sono a Baghdad, inviato da Famiglia Cristiana, e osservo gli iracheni che celebrano Eid al-Fitr, la grande festa che sancisce la fine del Ramadan. Per molti c’è una ragione speciale per essere allegri, oltre alla conclusione del mese del digiuno purificatore, ed è la speranza che la guerra, minacciata dagli Usa e da tempo incombente, possa essere evitata. In Europa ci sono le marce per la pace, papa Giovanni Paolo II leva la voce contro l’uso della fora («Mai le vie della violenza conducono a vere soluzioni dei problemi dell'umanità», dice già meroledì12 settembre 2001, all'udienza generale), si parla addirittura di una mediazione vaticana e di un possibile viaggio del Pontefice nella capitale irachena. Alla visione profetica del Papa santo si aggiungono voci laiche e non meno chiare. Quella di Hosni Mubarak, per esempio, allora preidente dell’Egitto, che ammonisce: “Con una guerra non avremo più un Osama ma cento”.

Eppure, quando a Baghdad parlavo con osservatori locali smaliziati ed esperti, l’entusiasmo e la speranza cedevano il passo allo sconforto. La guerra si farà comunque, dicevano, gli americani hanno già deciso, stanno solo predisponendo le carte. E anche chi voleva sbarazzarsi di Saddam sottolineava che la guerra era il modo sbagliato, che avrebbe prodotto solo disastri. Tornai in Italia portando con me soprattutto questa sensazione. Ecco perché quell’Eid al-Fitr è il mio personale 11 settembre.

L’11 settembre vero, quello del 2001, non era stato il primo feroce massacro di persone innocenti perpetrato da Al-Qaeda. L’organizzazione di Osama bin-Laden aveva già colpito duramente in Africa, in Asia e in Medio Oriente. I quattro aerei dirottati dai 19 kamikaze islamisti, però, si schiantarono su persone originarie di 90 Paesi, il che fece automaticamente di quella strage un attacco contro la comunità internazionale, uno sfregio all’umanità intera. Per questo fu così facile, per l’amministrazione Usa presieduta da Georg W. Bush, raccogliere decine di Paesi dietro la bandiera della “war on terror”, la guerra al terrorismo che non poteva più, a quel punto, avere frontiere. Arrivò subito, nemmeno un mese dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle l’invasione dell’Afghanistan (7 ottobre 2001), il Paese dominato dai talebani che era diventato il santuario dei terroristi di Osama. Poi l’invasione dell’Iraq (20 marzo 2003) con la rimozione di Saddam Hussein.

Eppure successe un fatto strano. A dispetto della potenza militare americana, delle decine di alleati occidentali e non, a dispetto del fatto che dietro le bandiere della “guerra al terrorismo” fossero schierati tutti i Paesi più sviluppati del mondo dal punto di vista militare, tecnologico ed economico, il terrorismo islamista non fece che crescere. Più lo combattevamo, più quello sembrava espandersi e dar vita a sempre nuove formazioni. Più investivamo nelle nostre imprese (solo gli Usa, tra Afghanistan e Iraq, hanno speso finora circa 6 mila miliardi di dollari), più gli islamisti uccidevano. Basta consultare uno dei tanti archivi sul terrorismo internazionale (Global Terrorism Index, Global Terrorism Database, Chicago Project on Security and Terrorism) e leggere le cifre per rendersene conto. Tra il 2001 (Torri Gemelle) e il 2011 il numero delle vittime del terrorismo jihadista nel mondo cresce di nove volte. 8 mila morti nel 2011, 18.100 nel 2013, 32.600 nel 2014. Tra il 2013 e il 2014, il numero dei Paesi che hanno pianto almeno 500 morti per mano del jihadismo passa da 5 a 11. Gli attacchi suicidi aumentano del 18% tra il 2013 e il 2014. Ed è ormai passato più di un decennio dalle Torri Gemelle.

Insomma, la “guerra al terrorismo” è stata un atroce fallimento. A esso ha posto fine il tragico errore commesso dagli stessi jihadisti nel 2014 quando, da inafferrabili fantasmi, hanno deciso di trasformarsi in comodi bersagli fondando lo Stato islamico, il califfato esteso su un terzo della Siria e un terzo dell’Iraq. A quel punto si è potuto parlare di una guerra tra Stati e, con il cambio dell’amministrazione negli Usa da Barack Obama a Donald Trump, cioè da un presidente che sperava che l’Isis abbattesse il siriano Assad a un presidente al quale della Siria importava nulla, il califfato è stato rapidamente distrutto.

Ma perché quel fallimento? Perché, prima del 2016, abbiamo dovuto subire anche gli attentati nella stazione ferroviaria di Atocha a Madrid (192 morti nel 2004), nella metropolitana di Londra (56 morti nel 2005), a Taba in Egitto (34 morti nel 2004), su su fino ai 137 morti del Bataclan a Parigi nel 2015? Tutto il mondo libero, sviluppato e ricco contro qualche centinaio di terroristi, ed ecco il risultato. Perché?

Una delle ragioni sta nel discorso sullo stato dell’Unione che George W. Bush tenne il 29 gennaio del 2002, pochissimi mesi dopo le Torri Gemelle. In quel discorso, Bush parlò del cosiddetto “asse del male”, prendendo a prestito il termine “asse” dalla seconda guerra mondiale (Germania, Italia e Giappone contro gli “alleati”) e quello di “male” dal famoso “impero del male” di cui parlava Ronald Reagan a proposito dell’Urss. In questo “asse del male” Bush inserì l’Iraq, l’Iran e la Corea del Nord. Più avanti trovò un posto anche per la Siria. Nessuno di questi Paesi, a dispetto dei regimi autocratici e crudeli che li governavano, aveva alcunché a che fare con Al-Qaeda e i suoi attentati. Ciò significava che la “guerra al terrorismo” non era realmente concepita per eliminare il terrorismo, ma piuttosto per ridisegnare il mondo, e soprattutto il Medio Oriente, a immagine e somiglianza dei desideri e dei progetti di un pugno ristretto di Paesi guidati dagli Usa. Da una crociata per far vincere le ragioni dell’umanità e della pace a una colossale speculazione politica. Che per realizzarsi doveva, anche, ignorare i legami potenti ed evidenti tra alcuni alleati e la galassia assassina del jihadismo.

Il 30 dicembre del 2009, per fare solo un esempio, l’allora segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, scriveva ai suoi collaboratori una mail poi intercettata e diffusa da Wikileaks, in cui diceva: “L’Arabia Saudita resta una base decisiva di supporto finanziario per Al-Qaeda, i talebani, Lashkar e-Taiba e altri gruppi terroristici… i donatori dell’Arabia Saudita costituiscono la più significativa fonte di finanziamento per i gruppi del terrorismo sunnita nel mondo… è una sfida senza fine convincere le autorità saudite ad affrontare il finanziamento ai terroristi che nasce nel loro Paese”. Ma nessuna lista nera per i sauditi, nessuna campagna di esportazione della democrazia, nemmeno dopo molti anni dalle stragi in territorio Usa.

Quindi è la ritirata dall’Afghanistan, così mediatica e così ignominiosa, la vera commemorazione dell’11 settembre vero. Di una data che poteva davvero costituire un punto di svolta per la politica globale e di una convergenza nuova su valori universali. All’altro 11 settembre penserà il cuore di ognuno di noi, dov’è conficcato da vent’anni e da dove mai se ne andrà.

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