Giorgio Paolucci.
A tutti è capitato di cadere almeno una volta nella vita, in maniera più o meno importante: una dipendenza, la morte di un persona cara, una malattia, l’emigrazione, la detenzione in carcere, un problema finanziario, una crisi affettiva. L’uomo non è programmato alla morte ma alla vita, a rialzarsi e ricominciare per quanto brutto sia l’inciampo.
Sono storie di grande umanità, storie vere, storie che soprattutto nel periodo natalizio aprono la mente a riflessioni più ampie, quelle che ci racconta nel libro Cento ripartenze (Itaca) Giorgio Paolucci. Cento testi brevi, alcuni duplicati nella rubrica Ripartenze, che il giornalista ha curato nella prima pagina di Avvenire la scorsa estate, di circa 1300 battute l’uno, dove il dono della sintesi riduce tutto a ciò che conta davvero. Se la maggior parte sono storie tratte da più di trent’anni di interviste e reportage, altre sono frammenti della vita personale dell’autore. “Racconto anche esperienze private, da mio padre a mia nipote Tecla, che ha una grave malformazione neurologica, non parla, ma quando mi sorride con gli occhi, il suo unico modo per comunicare, capisco che si può essere felici nonostante tutto. C’è anche la radioterapia che ho affrontato alcuni anni fa e che è stata una prova, un momento in cui la fragilità si è resa evidente. In quei momenti di vita sospesa si ha bisogno di qualcuno che ti sappia dare speranza, nel mio caso un infermiere che non mi ha trattato come un malato ma come una persona che aveva bisogno di uno sguardo d’amore. Le cadute sono utili per farci capire cos’è la natura umana, perché siamo al mondo. Non dico che l’errore sia qualcosa che dobbiamo desiderare, ma quando accade ci induce a pensare che il limite ci appartiene”, spiega Paolucci.
Storie ordinarie e straordinarie raccontate anche attraverso quadri o esempi di vita di personaggi famosi come Madre Teresa, San Benedetto, Gemma Calabresi, che diventano dei punti di luce e speranza. O quella di Pierre Claverie, vescovo di Orano In Algeria, ucciso da una bomba insieme al suo giovane autista musulmano. “Oggi si parla molto di dialogo interreligioso, ma il vero dialogo nasce dall’amicizia e papa Francesco ce lo insegna anche attraverso i suoi viaggi. Cristianesimo e Islam sono due esperienze irriducibili, assolutamente diverse, ma l’amicizia fa capire che nel cuore dell’uomo ci sono aspirazioni comuni grazie alle quali si possono fare tratti di strada insieme, come per il vescovo di Orano e il suo autista, che gli è stato accanto fino all’ultimo e in nome di questa amicizia è morto. La tomba d è diventata meta di pellegrinaggi sia per cristiani sia per musulmani”, racconta Paolucci. “Attraverso Il ritorno del figliol prodigo, capolavoro di Rembrandt, affronto il tema del sentimento del perdono e della misericordia di un padre, ormai anziano, che è sempre pronto ad accogliere un figlio che se ne è andato. Altra storia, quella di Gemma Calabresi, che ha impiegato vent’anni per perdonare gli assassini di suo marito. L’abbazia di Morimondo, invece, è un esempio di ripartenza nel Medioevo”.
Ma anche il tema del carcere e della libertà. “Con l’associazione Incontro e presenza faccio esperienza di volontariato nelle carceri di Opera, Bollate a San Vittore. Da questi incontri sono nate alcune storie, come quella dei detenuti che realizzano le ostie attraverso laboratori eucaristici, o del ragazzo che fa il master in Bocconi dopo aver trovato nello studio la molla per ripartire, o ancora la storia di chi, dopo essere stato un trafficante internazionale, è volontario nel centro antidroga e capisce tutto il dolore che ha causato”.
Non mancano esempi di migrazione circolare, con i migranti che ritornano a casa per aiutare lo sviluppo del proprio paese, nel caso di Seny, protagonista di un’altra storia, far nascere cooperative agricole in Africa, dopo aver imparato il mestiere in Sicilia.
Un libro utile in questo periodo buio. “Siamo reduci da tre anni di covid e non è ancora finito, basta guardare cosa sta accadendo in Cina. C’è la guerra, che un anno fa era assolutamente impensabile. Ci sono preoccupazioni economiche. Le mie sono storie di persone che si sono rialzate dopo le cadute, ma anche di persone che hanno avuto la possibilità di dare un significato al momento di dolore. Ripartenza non significa sempre lieto fine. Ripartenza nel senso di capire perché siamo al mondo e che la vita ha significato in ogni suo aspetto, anche in quelli più complicati”, continua Paolucci, che educa senza la volontà di educare, ma con la straordinaria bellezza che nulla pretende se non condurre in maniera gentile il lettore a maturare uno sguardo attento a cogliere i segni in cui Dio è presente nella nostra vita. “È molto importante essere attenti ai segni, siano persone, fatti o luoghi, che sono punti di luce nel buio”.
Il capitolo dedicato all’esperienza di Kayros, la comunità fondata a Vimodrone da don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Cesare Beccaria, è di grande attualità perché accoglie ragazzi che provengono dall’Istituto di pena dove in questi giorni si è verificata la clamorosa maxi evasione. “Don Burgio non impone regole ma scommette sulla libertà. Questi ragazzi hanno un kayros, un’occasione, una possibilità di cambiamento e sta a loro usarla bene, con responsabilità. La vita è piena di kayros, bisogna avere lo sguardo e la mente aperti per capire che Dio ci raggiunge attraverso dei segni. Nella vita di ciascuno di noi, come dice Daniele Mencarelli nella prefazione, almeno per un secondo compare una mano che ci prende e ci mette su una via fatta di salvezza. Sta a noi percorrerla o meno. L’amore di Dio ha bisogno di una risposta, non è un amore imposto, ma si compie nella nostra libertà. Se la nostra libertà non si mette in azione, Dio ci può passare accanto senza che noi ce ne accorgiamo”.
Ma perché l’uomo cade? “Perché non è infrangibile. La fragilità ci appartiene, fa parte della nostra natura. Comunque non ci definisce. Noi siamo più del nostro errore, più del nostro sbaglio, più della nostra malattia”, conclude.
L’uomo non è il suo errore, direbbe don Benzi.