Mancano cinquantuno giorni. Cinquantuno giorni esatti all’accensione della fiamma olimpica di Milano-Cortina 2026. A Santa Giulia il tempo non si misura in calendari, ma in colate di cemento, in getti notturni, in camion che entrano ed escono dal cantiere e dal quartiere come un respiro affannoso. Il conto alla rovescia qui è fisico: lo senti nel naso con l’odore del catrame fumante, e nelle ossa, soprattutto oggi, sotto una pioggia insistente e un freddo che sembra voler ricordare a tutti che l’inverno non aspetta i rendering.

Il rendering iniziale

Eppure si cammina. Si cammina lo stesso. Un gruppo di cittadini, attivisti, ricercatori, abitanti del quartiere. Non è una visita guidata, non è una protesta nel senso classico. È una passeggiata monitorante, come la chiamano Libera (l’associazione fondata da don Luigi Ciotti) e Scuola Common: un atto di attenzione civile, un modo per rimettere il corpo dentro i luoghi e chiedere conto a ciò che sta accadendo. Qui, a sud di Milano, dove dovrebbe sorgere il PalaItalia – l’arena olimpica dell’hockey su ghiaccio – e dove l’evento globale promette spettacolo, legacy, rilancio. Promette. Ma spiega poco.

Il suolo che non dimentica

«Qui c’era l’acciaieria Redaelli». Pietro Basile, referente di Libera Milano, parla camminando, come se il passo aiutasse il pensiero a restare aderente al terreno. Fa da guida e da interprete, una sorta di Virgilio urbano che accompagna il gruppo attraverso i gironi moderni dell’urbanistica contemporanea: bonifiche parziali, progetti ridimensionati, costi che lievitano.

Sotto i nostri piedi non c’è solo asfalto recente. C’è una stratificazione di memorie industriali: capannoni, rotaie, merci. Santa Giulia nasce su uno scalo ferroviario merci, non passeggeri, uno di quelli che facevano funzionare la Milano fabbrica. Qui arrivavano e partivano materiali, qui sostavano i treni a lunga percorrenza in attesa di entrare in servizio. Era una zona produttiva, viva, sporca, ma con una funzione chiara.

La trasformazione comincia nei primi anni Duemila. È il 2005 quando prende forma il grande progetto di riqualificazione urbanistica firmato da Norman Foster. Un nome globale per un’operazione che voleva essere simbolica: la Milano post-industriale che rinasce, elegante, sostenibile, contemporanea. Santa Giulia diventa il quartiere più giovane della città. Vent’anni appena. Ma porta addosso un peso che sembra molto più antico.

Le bonifiche, racconta Basile, vengono fatte in modo approssimativo. Troppo. La magistratura se ne accorge, interviene, ferma i lavori, impone una messa in sicurezza più rigorosa dei terreni. Qui, prima, c’era anche una cava con al centro un lago blu, utilizzato per lo smaltimento dei materiali chimici delle aziende che estraevano e lavoravano. Un’eredità pesante, che non scompare con una mano di vernice verde.

Bonificare per costruire palazzi costa meno che bonificare per realizzare parchi. E così il verde resta spesso sulla carta, mentre l’edilizia avanza. Il Parco Robinson, promesso a molti residenti, non arriva mai. Alcuni condomini continuano a lamentarsi: dalle finestre avrebbero dovuto vedere alberi, non altri edifici.

Via Cassinari è l’asse, il cardo romano su cui avrebbe dovuto svilupparsi il quartiere. Nelle intenzioni iniziali si sarebbe chiamata Montecity Avenue. Il nome dice già tutto: una riqualificazione di alto bordo, una Milano 4, dopo Milano 2 e Milano 3. Una città nella città, pensata per attrarre un certo tipo di abitanti, un certo tipo di redditi, un certo tipo di vita.

Oggi quella direttrice arriva a un punto e poi si interrompe. Basile si ferma, indica la prospettiva. «Da qui in poi Milano finisce». Non è una metafora: è una constatazione urbanistica. Santa Giulia è un quartiere giovane, costoso, ma poco integrato. I prezzi al metro quadro oscillano tra i 3.900 e oltre i 4.000 euro, valori da zone semiperiferiche ben collegate. Ma qui la città resta lontana, separata da ferrovie e infrastrutture che più che unire dividono.

Il risultato è un paradosso: un quartiere nuovo che già appare incompiuto, una periferia di pregio che fatica a diventare città. E ora, improvvisamente, un quartiere olimpico.

Il cantiere che non parla

Avvicinandosi all’area del PalaItalia, l’impressione è quella di un’enorme opera sospesa. Ottocento maestranze al lavoro, raccontano. Gru che si stagliano nel cielo grigio, betoniere che girano senza sosta. Eppure qualcosa manca. Mancano i cartelli informativi: niente durate chiare del cantiere, niente destinazioni d’uso leggibili, nessuna spiegazione accessibile ai cittadini.

Il costo ufficiale dell’arena è di 200 milioni di euro, investimento privato. Ma le stime parlano già di 270 milioni a fine lavori. Settanta milioni in più. Su quei settanta milioni si concentra una domanda semplice e ostinata: chi paga? Come si compone quella cifra? Quali fondi pubblici entrano in gioco?

L’investitore è Eventim–TicketOne. E l’arena, guardata da vicino, racconta una verità scomoda: nasce più per i grandi eventi musicali che per lo sport. Sedicimila posti, una macchina perfetta per i concerti. Ma per la pallacanestro ha una licenza “silver”, che limita fortemente il numero di spettatori ammessi. Per l’hockey su ghiaccio, disciplina olimpica per cui l’impianto è considerato essenziale, la struttura non sarebbe pienamente omologata.

Il CONI concede una deroga, chiude un occhio – forse due –. La Federazione italiana sport del ghiaccio, raccontano da Libera, avrebbe espresso un parere negativo. Il risultato è un cortocircuito: un’opera centrale per i Giochi che non rispetta pienamente gli standard sportivi, ma viene comunque considerata sufficiente per l’evento.

Emergenze a carico del pubblico

C’è un altro livello, più silenzioso ma altrettanto rilevante. Le opere di viabilità, accessibilità, illuminazione e urbanizzazione avrebbero dovuto essere a carico dei costruttori privati. Era scritto nei capitolati. A pochi mesi dall’evento, però, i privati dichiarano di non riuscire a rispettare gli impegni.

Il Comune di Milano interviene in emergenza: sette milioni di euro dai fondi del gabinetto del sindaco. Per avere un termine di paragone, l’intero budget annuale dell’assessorato allo Sport del Comune è di circa otto milioni. Opere fatte in fretta, sotto pressione, che – viene spiegato – verranno smantellate dopo i Giochi perché non a norma.

Soldi pubblici per infrastrutture temporanee, destinate a sparire. Senza che sia chiaro se e quali penali verranno applicate ai privati inadempienti. Una soluzione tampone, che lascia aperte più domande di quante ne chiuda.

L’accesso negato

Libera e Scuola Common chiedono dati. Presentano richieste di accesso civico generalizzato. Regione Lombardia risponde e consegna la documentazione. Il Comune di Milano, invece, inizialmente nega. Poi accoglie l’istanza, ma rinvia la consegna degli atti alla fine del procedimento, per tutelare presunti controinteressati.

In altre parole: i documenti non arrivano. Non ora. Forse non in tempo utile per capire cosa stia accadendo davvero.

Senza dati non c’è dibattito informato. Non c’è nemmeno un’opinione solida. Resta solo l’opacità.

A fare ordine – o almeno a provarci – è Leonardo Ferrante, di Scuola Common e della rete nazionale Open Olympics 2026. Il terzo report, pubblicato a ridosso dei Giochi, è una radiografia impietosa del diritto di sapere.

Sul portale Open Milano Cortina 2026 risultano 98 opere, per un investimento complessivo di 3,54 miliardi di euro. Di queste, 31 sono opere essenziali allo svolgimento dei Giochi, 67 rientrano nella cosiddetta legacy. La sproporzione è evidente: solo il 13% della spesa riguarda ciò che serve direttamente alle Olimpiadi; l’87% finanzia infrastrutture permanenti, soprattutto stradali e ferroviarie. Per ogni euro destinato allo sport, 6,6 euro vanno altrove.

Lo stato di avanzamento racconta un’altra verità scomoda: solo 42 interventi saranno completati prima dell’inizio dei Giochi. Il 57% finirà dopo. L’ultimo cantiere è previsto nel 2033. Sedici opere vengono classificate come “fine ante-Olimpiadi”, ma in realtà saranno completate definitivamente solo dopo l’evento, comprese opere essenziali come il Cortina Sliding Centre e alcuni interventi per l’innevamento artificiale.

Mancano informazioni cruciali: l’impronta ambientale delle singole opere, le fonti finanziarie degli aumenti di costo, i valori economici dei subappalti. Senza CIG e importi non è possibile incrociare i dati con ANAC né valutare concentrazioni di mercato e rischi.

E poi c’è tutto ciò che resta fuori dal portale. La Regione Lombardia, sulla propria piattaforma, censisce 78 interventi per oltre 5 miliardi di euro, molti dei quali non compaiono nei dati ufficiali olimpici. Il budget complessivo della Fondazione Milano Cortina 2026 è dichiarato in 1,7 miliardi, ma il documento non è pubblico. Sul fronte sicurezza vengono stanziati 271 milioni, sottraendo risorse ad altri fondi sensibili. Sul fronte sanitario, ogni Regione procede per conto proprio.

Mentre la passeggiata si conclude, arriva un’ultima informazione, quasi fuori campo. Il decreto Economia, in discussione in Parlamento, prevede nuovi stanziamenti: 44 milioni per esigenze logistiche dei Giochi, 5 milioni per l’impianto natatorio del Comune di Milano, e soprattutto 30 milioni di euro pubblici per Santa Giulia, destinati alla stipula di convenzioni per eventi sportivi su base pluriennale.

Ancora risorse pubbliche. Ancora decisioni prese a ridosso dell’evento. Quando l’attenzione collettiva è altrove.

La domanda che resta

Santa Giulia, sotto la pioggia, diventa così una metafora perfetta di queste Olimpiadi. Una macchina gigantesca che corre veloce, lasciando dietro di sé zone d’ombra. Grandi promesse, grandi opere, grandi numeri. E una fatica costante a ottenere chiarezza.

Non è un’accusa, insistono da Libera. È una domanda. A cosa servirà tutto questo, dopo? Chi ne beneficerà davvero? Quale sarà il lascito per la comunità che vive qui, tutto l’anno?

Finché i dati resteranno parziali, finché le risposte arriveranno tardi o non arriveranno affatto, l’unica eredità certa rischia di essere questa: aver costruito molto, raccontato poco e chiesto ai cittadini di fidarsi. E averlo fatto mentre, sotto una pioggia ostinata, qualcuno continuava a camminare per vedere, capire, ricordare.