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Come previsto, la Camera statunitense ha approvato, con 237 sì contro 187 no, l’impeachment, ovvero la messa in stato d'accusa di Donald Trump. Il partito repubblicano ha fatto quadrato attorno a lui, nonostante la sua fama di aderente al "partito di Lincoln" atipico. Come da copione, la votazione in seduta plenaria alla Camera ha visto quasi tutti i deputati schierati in base alle logiche di schieramento. Davvero un dono del cielo per il tycoon (tra un po’ vi spiegheremo perché).
L’impeachment, ovvero la messa in stato d’accusa del presidente degli Stati Uniti, è un atto storicamente eccezionale, di carattere formalmente giuridico, ma in realtà assolutamente politico. La Costituzione americana prevede infatti che questa procedura possa avvenire in tre casi definiti “straordinari”: alto tradimento, corruzione o non meglio precisati “crimini e misfatti”, in inglese “crimes and misdemeanors” ( qualcuno si ricorderà che è il titolo di un film di Woody Allen). Quest’ultima è una dizione che permette di introdurre praticamente qualunque cosa. "The Donald" non fa eccezione. Secondo l’accusaTrump minacciò di sospendere gli aiuti militari all’Ucraina, necessari per difenderla dalla Russia, finché il governo di Kiev non lo avrebbe aiutato - con accusa false - contro il proprio avversario politico Joe Biden (ex vicepresidente con Barack Obama, oggi candidato alla nomination democratica per l’elezione presidenziale del 2020).
Ma i giudici del tycoon americano, accusato di abuso di potere e ostruzione ai poteri del Congresso in questo complesso caso ucraino, non sono gli inquilini dell’ala Sud del Campidoglio, ovvero i deputati della Camera (dove la maggioranza è democratica), bensì quelli dell’ala Nord: i 100 senatori . I deputati infatti votano solo se spedirlo o no al Senato, ilsuo vero tribunale. E tra i senatori la musica cambierà, perché la maggioranza è repubblicana.
L’impeachment è una procedura politica per rimuovere il presidente dalla propria carica, e funziona come un processo: nelle prossime settimane si terrà un vero e proprio dibattimento in Senato, al termine del quale un voto deciderà se dare lo sfratto o no all’attuale inquilino dalla Casa Bianca. Sarà l’occasione per qualche dura requisitoria da parte dei senatori democratici, che permetterà loro di ottenere il loro quarto d'ora di visibilità.
Trump è il terzo della serie dei presidenti colpiti da impeachment. Il primo fu Andrew Johnson, nel 1868, successore di Abramo Lincoln, di cui era vicepresidente, dopo il suo omicidio. Il secondo, nel 1998, fu Bill Clinton, accusato di aver detto il falso per le sue tresche con alcune stagiste, tra cui la famosa Monica Lewinski. Nessuno di loro fu condannato. Altri due rischiarono la stessa sorte: John Tyler nel 1840 (ma la richiesta non andò a buon fine) e James Buchanan, che finì sotto commissione, ma il verdetto fu che non si doveva procedere. Un quinto presidente evitò di arrivare fino in fondo dimettendosi per evitare la procedura: fu Richard Nixon nel 1974, dopo che esplose il famosissimo scandalo Watergate, il quartier generale dei democratici fatto spiare per ordine del presidente repubblicano (come scoprirono i cronisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein).
Il giudizio finale dunque, come detto, è del Senato, dove i senatori repubblicani sono la maggioranza: 53 contro 47. Perché Trump venga destituito occorrono i due terzi dei votanti. Venti senatori repubblicani dovrebbero passare dall’altra parte. Cosa molto improbabile. Donald Trump dunque verrà assolto. Il fatto che venga giudicato pubblicamente (e assolto) potrebbe addirittura giocare a suo favore il 3 novembre prossimo, quando si rivoterà per le presidenziali. In America, la patria della democrazia moderna, a far cadere i presidenti, finora, non sono i giudici o i politici, bensì la gente, l’opinione pubblica espressa dai sondaggi e informata dalla stampa e dagli altri mass media. Come ben sapeva Nixon, che gettò la spugna per limitare i danni già ampiamente alimentati dai media perchè sapeva di essere indifendibile non disponendo della maggioranza in senato.
Nel caso di "The Donald" entrerà in gioco un nuovo attore, i social networks, ormai collaudati propalatori delle bufale più inverosimili, non disdegnate neppure da Trump, che ne fa largo uso, come ormai sappiamo. «Trump ha seguito rabbiosamente, prima di partire per un comizio serale a Battle Creek, nel Michigan. Poi una scarica di 45 tweet senza risparmiare sulle maiuscole: “Questo è un assalto all’America”, “Ci potete credere che oggi sono messo sotto accusa dalla sinistra radicale, da questi nullafacenti di democratici, senza che abbia fatto nulla?”» ha scritto Giuseppe Sarcina sul Corriere della sera. Durante la requisitoria al Senato ne vedremo di tutti i colori dunque, prepariamoci. Ci sarà una radicalizzazione a destra e a sinistra delle opinioni e degli schieramenti, radicalizzazione quasi sempre nefasta perchè la buona politica, da che mondo e mondo, è l'arte della mediazioen e della moderazione. Ma alla fine Trump ne uscirà indenne e probabilmente addirittura rafforzato. La democrazia americana, così celebrata da Toqueville quale esempio mirabile di civiltà, un po’ meno.





