Può bastare un gesto a interrompere un processo così delicato, profondo e determinate come quello di naturalizzazione di una famiglia straniera? Eppure, a Therwil, piccolo paese svizzero del canton Basilea Campagna, è successo. Le autorità hanno sospeso il processo di naturalizzazione di due adolescenti arabi, 14 e 16 anni e dei loro familiari. Perché i ragazzi, in nome di una legge superiore non hanno dato la mano alle insegnanti nonostante la consuetudine locale imponga il gesto a fine lezione come forma di ringraziamento. Motivo? Hanno spiegato che se lo facessero trasgredirebbero al precetto che vieta ai musulmani di toccare un’altra donna, all’infuori della moglie.
«Anche un ebreo ortodosso o un rabbino non darà mai la mano a una donna», commenta Paolo Branca, islamista, docente di Lingua e letteratura araba presso l'Università Cattolica di Milano, responsabile dei rapporti con l’Islam per la Diocesi di Milano, raggiunto al telefono per provare a capirne di più. «È il solito tentativo di strumentalizzare una notizia per dimostrare che una famiglia araba musulmana non si può integrare. Il divieto di venire in contatto con donne estranee è legato anche alla impurità rituale: se il gesto fosse un’espressione di disprezzo sarebbe grave e la scuola ovviamente ne dovrebbe e ne terrebbe conto. Tra l’altro so che la preside, le insegnati e i ragazzi si sono già chiariti».
Lei che da anni accompagna in particolare i ragazzi di seconda generazione nel loro percorso di crescita e ricerca di identità. Per cosa passa realmente l’integrazione?
«Passa attraverso moltissime cose: alcune negoziabili e altre no. Una ragazza che non vuole andare a nuotare con i suoi compagni maschi è comprensibile. L’importante è che faccia ginnastica, se poi la vuol fare correndo in tuta sarà una scelta sua. Un’altra è la mutilazione genitale che è un menomazione, un reato che non potrà mai essere autorizzato».
Quei ragazzi avrebbero dovuto stringere la mano?
«Non credo si possa obbligare nessuno a fare niente. Se stringere la mano a fine lezione nella cultura svizzera è un gesto di ringraziamento basta che questi ragazzi si mettano una mano sul petto e facciano un inchino. Non verrà tradita l’intenzione. Se poi, nel tempo, visto il contesto in cui vivono, scopriranno che quel gesto ha un significato diverso che può essere praticato questo è un altro discorso. Ben venga che maturino questo pensiero».
E a chi teme che questo atteggiamento tradisca una mentalità che non li porterà mai a smarcarsi dalle proprie origini cosa risponde?
«Che è una lettura un po’ superficiale; questi ragazzi vanno a scuola, parlano tedesco, studiano materie che non avrebbero mai studiato nel paese di origine; quindi molte cose le condividono e apprezzano. Non è giusto abbandonare completamente la propria cultura di origine. Naturalizzazione sì, io non parlerei nemmeno di integrazione, piuttosto di interazione. Non ci si deve chiudere nel ghetto e non avere contatti. Se, invece, alcune cose le si accetta e altre le si sospende, beh questo è normale. È un processo che richiede tempo e strumenti e non può essere omologato. Ma, soprattutto, non può essere normato. Questo regolare per legge tutto compresa la maturazione di una persona mi sembra una regressione. È un modo di disumanizzare le relazioni che sono sempre calate in un contesto particolare».