(Nella foto, il messaggio del premier Giuseppe Conte agli italiani, la sera del 6 aprile).
Sta facendo discutere ma anche sorridere, la gaffe del premier nella conferenza stampa di ieri, 6 aprile, sulla Pasqua. Dovremmo essere contenti del fatto che la politica non dimentica la religione e la fede, specialmente in tempi drammatici come quello che stiamo vivendo. Invece, inopportune appaiono le modalità che caratterizzano tali riferimenti, spesso del tutto strumentali. Dobbiamo constatare, purtroppo, la scarsa dimestichezza in materia di religione e di teologia non solo della gente comune, bensì di chi la rappresenta ai massimi livelli.
Certo il termine ebraico pesach significa letteralmente “passaggio”. Ma cosa si indica con questa parola? Nell’orizzonte veterotestamentario il riferimento originario è al passaggio dell’angelo della morte, che risparmia le dimore degli ebrei contrassegnate dal sangue dell’agnello (Es 12,12: “Io vedrò il sangue e passerò oltre”). Passando oltre, Dio libera dalla morte e immediatamente dalla schiavitù d’Egitto il suo popolo, attuando la promessa fatta a Mosé, dopo il termine della nefasta esperienza delle piaghe, che hanno colpito gli oppressori, fra le quali una vera e propria “epidemia”, che si manifestò attraverso ulcere sul corpo di persone e animali. Nel deserto il popolo manifesta anche una certa nostalgia per le famose cipolle d’Egitto (Nm 11,5), ma non vi ritorna e se qualcuno intende rientrarvi vuol dire che preferisce la schiavitù e la dittatura alla libertà. Coloro che Giovanni Paolo II ha chiamato “i nostri fratelli maggiori”, festeggiano la Pasqua quest’anno fra l’8 e il 16 aprile, ricordando la schiavitù e la liberazione, con gli azzimi e la cena pasquale (seder): un rito, originariamente domestico, come sarà lo spezzare il pane dei primi cristiani.
La Pasqua cristiana celebra il mistero della passione, morte e risurrezione di Gesù e la madre di tutte le veglie (celebrata nella notte fra il sabato e la domenica) rappresenta il culmine dell’anno liturgico, con i segni del fuoco, della luce (cero) e dell’acqua battesimale. Il giorno di Pasqua è per noi il primo giorno della settimana e celebra la vittoria di Cristo sulla morte, come recita la meravigliosa sequenza, che narra il duello fra morte e vita. La liturgia della Parola della notte fa ripercorrere tutta la storia della salvezza, passando attraverso l’esodo e le profezie dell’Antico Testamento, fino al racconto dell’esperienza del Risorto, affidata alla testimonianza delle donne e degli apostoli. Il profondo nesso con la Pasqua ebraica è dato dalla figura tipologica dell’agnello, il cui sangue determina il passare oltre dell’angelo della morte. Si discute molto fra gli esegeti se la cena, che ricordiamo il Giovedì Santo, sia stata una vera e propria cena pasquale. Gesù muore nel momento in cui venivano sacrificati gli agnelli nel tempio di Gerusalemme, il che porta a concludere che non può aver mangiato l’agnello pasquale del culto ebraico. In ogni caso Egli è l’agnello che “solleva”, come vuole il testo greco, il peccato del mondo e, prendendolo su di sé nelle sue tragiche conseguenze, sollevandolo, sulla croce lo redime.
Sia noi cristiani, che i fratelli ebrei, celebreremo la Pasqua senza momenti comunitari pubblici e avvertiremo la mancanza di tale dimensione del culto. Certo potremo assistervi attraverso i mezzi della comunicazione (in particolare la televisione), ma una cosa è assistere, altra partecipare. Cosa ci raggiungerà, mentre assisteremo al triduo pasquale e alla veglia? Certo non i sacramenti, che non si possono celebrare per via televisiva, radiofonica o telematica, ma la Parola di Dio, che ci auguriamo possa esprimere tutta la sua forza creatrice e liberatrice, ossia la sua “sacramentalità”.
Tuttavia, le reazioni alla gaffe del premier ci dicono che ci sono persone attente e formate e, dunque, questo episodio deve anche stimolarci a formare credenti laici adulti e preparati, con un lavoro capillare, anche attraverso i media e il lavoro di una rivista come la nostra.