Carpi, istituto superiore, giovane insegnante di sostegno cerca di sedare una rissa fuori da scuola. In realtà, una spedizione punitiva, con tanto di tirapugni. Viene aggredito, occhiali rotti, naso fratturato.
Capoterra, provincia di Cagliari, liceo Atzeni: quattordicenne accoltella un compagno di classe, forse vendetta per bullismo, forse una ragazza, chissà. Morgano, provincia di Treviso, scuola media: docente mette una nota su un registro a un alunno, i compagni la accerchiano gridando «te la faremo pagare». La cronaca di ogni settimana ci rammenta di insegnanti accoltellati, o picchiati, o insultati.
C’è una proposta di legge a tutela della sicurezza del personale scolastico, che prevede un aumento delle pene. Ma è sempre tardi. C’è mancanza di controllo, lassismo, impunità. C’è un cedimento alla violenza che esprime diseducazione e disagio, patologie psichiatriche, solitudine straniante, assenza delle famiglie, quando non sono proprio i genitori a usare violenza.
C’è dipendenza da social, che spinge a mostrarsi spavaldi fino al crimine. Ma c’è qualcosa di più, un’idea di scuola sbagliata, e trasmessa in modo sbagliato da almeno un paio di generazioni, di cui oggi cogliamo le derive.
La scuola dell’obbligo, se è solo un obbligo imposto dallo Stato, suscita disaffezione o ribellione. Perché l’obbligo non è verso la famiglia, i professori, la politica, e via via con entità sempre più astratte. Il dovere, se insensato, non regge alle provocazioni della rete, del pensiero comune che impone il cogli l’attimo, tutto e subito, zero fatica e sacrificio, fatti da solo.
Perché obbedire a un professore, perché obbedire alle regole, perché aderire a una comunità che non si è scelta? Per anni è stato scardinato il principio di autorità, come al solito senza capirne il significato.
La giusta esigenza di considerazione, libertà di pensiero, di interessi, si sono trasformati in diritto all’autoeducazione, pretesa di far prevalere le opinioni sulla conoscenza, abitudine a svalutare il ruolo dei docenti, mortificandone la competenza e la dignità. Obbedire significa ascoltare per un buon motivo, ci insegna l’etimologia, e il motivo dell’ascolto sono io, la mia vita, la costruzione della mia persona. No, non mi faccio da solo, non imparo da solo.
L’obbligo della scuola non è di legge, ma è morale. Come direbbe Kant, devo perché comprendo, quindi accetto e condivido. La scuola permette la mia libertà, la relazione, lo scambio di idee, che nel branco (anche digitale) non avviene. La scuola prima che un dovere è un diritto, da accogliere perché tanti uomini e donne non l’hanno mai avuto, o lo ottengono a caro prezzo.
Inutile gridare nelle piazze per le coetanee iraniane uccise perché non portano il velo, e poi molestare gli insegnanti, sfasciare le aule, imbrattare i muri di una scuola che ci è data per crescere, per diventare cittadini.
Scuola è una parola antica, viene dal greco e significa tempo libero. Solo chi aveva tempo libero poteva permettersi di studiare. Solo i privilegiati. E il tempo diventa libero se liberato dall’ignoranza, che rende servi del potere di turno. Altro che picchiare gli insegnanti o ricorrere al Tar per una bocciatura.