Un filo rosso unisce l’infanzia, la giovinezza e l’età matura di uno dei più potenti uomini d’affari italiani, Ennio Doris, fondatore del Gruppo Mediolanum e presidente di Banca Mediolanum Spa: la passione per la bicicletta. Ciclista e tifoso da una vita, negli ultimi anni ha raccolto il suo patrimonio di conoscenze e, insieme con il giornalista sportivo Pier Augusto Stagi, ha realizzato tre libri, l’ultimo dei quali dedicato alle cento edizioni del Giro d’Italia: 100 storie un Giro (Mondadori).
Doris, come è nato questo amore per le due ruote?
«Quando ero bambino il ciclismo era lo sport più importante. Ricordo che giocavo con dei legnetti che facevo scorrere nei ruscelli e a ognuno avevo dato il nome di un ciclista. A una piccola bici da donna feci mettere un manubrio da corsa con l’illusione di salire in sella a un bolide. Crescendo usavo la bici di mio papà e con gli amici ci si buttava giù a rotta di collo lungo le colline di Asiago. A 18 anni con tre amici feci un giro d’Italia fino a Roma in bici dormendo negli ostelli.
E adesso? Continua ad andare in bicicletta?
«Molto meno, ora preferisco camminare. Però la passione l’ha ereditata mio figlio Massimo (amministratore delegato di Mediolanum, ndr) che si è comprato l’ultimo modello di bici da corsa e se l’è portato in ufficio, dove l’ammira come una reliquia. E ha contagiato anche il figlio di 17 anni. Insomma, un male di famiglia».
Da quando ha cominciato a seguire il Giro?
«Dai racconti di mio padre, che mi narrava le gesta di Girardengo. Io sono cresciuto nel mito di Coppi e Bartali, esponenti del ciclismo eroico, e sognavo di emulare questi grandissimi corridori. Seguivo il Giro quando passava dalle nostre parti. Al seguito delle tappe c’era e c’è un clima di festa, non c’è spazio per le inimicizie tra i tifosi, perché quando vedi i corridori che salgono in montagna con il dolore sulla faccia ti sembrano tutti di un unico colore».
Che cosa ha rappresentato la bicicletta per gli italiani?
«La bicicletta diede al popolo italiano la libertà, consentiva spostamenti più lunghi, era il bene più prezioso. E i ciclisti cavalcavano un mezzo così importante nella vita quotidiana. Il ciclismo aveva un tale seguito che l’arrivo del primo Giro d’Italia a Milano fu tenuto segreto perché si temeva che la folla avrebbe messo in pericolo l’incolumità dei corridori. Che correvano anche 16 ore di seguito, partendo di notte, una tappa ogni due giorni per avere il tempo di riposare».
Il campione dei campioni?
«Senza dubbio Fausto Coppi. Il più forte in assoluto sia in pianura sia in montagna. Questo grazie alle sue caratteristiche fisiche, pesava poco, era di ossatura leggera. Moser, che ha ottenuto il record dell’ora, in salita non rendeva perché aveva l’ossatura grossa».
La corsa delle corse?
«La Cuneo-Pinerolo nel Giro del 1949, cinque colli, con Coppi che conquistò la maglia rosa e Bartali che arrivò secondo. Da qui nacque il mito di un uomo solo al comando. Ancora mi commuovo se ci penso e allora avevo solo nove anni. Un’altra tappa leggendaria è l’Auronzo-Bolzano nel Giro del 1953. Vinse Coblet e Coppi dichiarò di essere contento di essere arrivato secondo dietro un campione come lui. Ma fedele al motto “ricordati che c’è anche domani”, il giorno dopo sullo Stelvio Coppi vinse la tappa e il Giro».
Quest’anno per chi farà il tifo?
«Per un italiano, sempre. Mi piace il siciliano Nibali, che è anche dotato di intelligenza e lealtà. Ha vinto due Giri d’Italia e un Tour de France e una Vuelta. È vero che ha 32 anni ma può sempre vincere. Purtroppo un campione come Aru quest’anno non ci sarà».