Dovrebbero cambiargli il nome, all’esame di maturità. Che significa, considerarsi maturi dopo qualche prova scritta e una chiacchierata orale, che dovrebbe saggiare non solo la conoscenza dello scibile studiato in 5 anni di sudate carte, ma pure attestare un livello.
Di cosa? Saggezza, responsabilità, capacità critica, creatività, impegno, dedizione, curiosità, interesse…
È questo mix che caratterizza la maturità? Poco credibile. A diciott’anni, ci dicono i neuropsichiatri, la corteccia prefrontale non è ancora formata del tutto, ed è lì che covano alcune delle qualità sopraddette. E infatti a diciott’anni si fanno un sacco di sciocchezze, si è affatto prudenti, equilibrati, stabili.
Allora, che cos’è la maturità, vocabolo che usiamo per la frutta e appunto, per l’esame di stato? È solo una prova, la prima seria e impegnativa, che ci espone al giudizio altrui, non di chi ti conosce e ti segue da tempo, ma di estranei. È una prova, come ne avremo altre nella vita, per saggiare se siamo adatti a un certo tipo di lavoro. Una prova anche di solidità psicologica, e quindi sono abbastanza stucchevoli ogni anno i piagnistei sull’ansia da prestazione di giovani in preda a crisi di nervi, emaciati e inappetenti, soggetti a incubi e depressioni memorabili a decenni di distanza.
Ma quando mai. Oggi all’esame di maturità passa il 98,8% degli studenti, e questo la dice lunga sulla effettiva maturità di chi verifica. Perché su una platea di oltre 500 mila ragazzi, che il 98 e rotti su 100 sia matura, è semplicemente impossibile. Sempre che si definisca il concetto di maturo.
Ma le prove servono, a calcolare i tempi di azione e reazione, a prepararsi, a capire su quali talenti puoi contare e su quali allenarti, di quali sei privo, e l’imperfezione non è una mancanza, imperfetti lo siamo per natura (era uno dei temi suggeriti, prendendo spunto da una frase di Rita Levi Montalcini). Soprattutto, è l’inizio di una strada, in cui riflettere: cosa farò adesso? Con che criteri sceglierò l’università, il lavoro? Cosa amo fare, cosa so fare, cosa posso fare? Questi paletti sono necessari per considerare il proprio cammino.
Inutile tentare il Politecnico se matematica e fisica sono pari all’arabo, inutile forzarsi a fare il pittore se sono scarsino in disegno e non ho mai visto una mostra d’arte, sbagliato desiderare un master in California se nessuno me lo può mantenere.
Cosa desidero, invece, dalla vita, cioè da quel che mi è dato, è la vera domanda. E se finora non è persa, il tempo obbligato dell’esame di maturità spinge a ragionarci su.
Poi ci sarà la paura, e toccherà saperla vincere, perché i ragazzi che combattono a Kherson ne hanno di più. Ci sarà il dispiacere, per un punto in più o in meno, e pazienza, è utile subire qualche piccola ingiustizia per imparare a superarne altre e a non commetterne. Ci sarà la confusione e il vuoto di memoria. Pace. La dicitura è ciò che resta quando si è dimenticato tutto. Ma non la baldanza con cui, a diciott’anni, ci si affaccia a calcare i sentieri con la voglia di essere protagonisti.
Vivere, non vivacchiare, diceva un 24enne di cent’anni fa, che a breve faranno santo, Pier Giorgio Frassati.