Porrajmos, in romanes, significa “devastazione”: è il nome con cui rom e sinti ricordano lo sterminio, di cui anche loro sono stati vittime. Le cifre degli storici parlano di almeno 500 mila zingari uccisi, ma per qualcuno si può arrivare al milione. «Su questo tema c'è un enorme vuoto storico», sottolinea Maurizio Pagani, dell'Opera nomadi di Milano, «nessuno finora ha fatto un tentativo di ricostruzione seria e i testimoni diretti ormai sono pochissimi, poiché la vita media di un rom è inferiore rispetto a quella di un italiano».
Tra i sopravvissuti, c'è Goffredo Bezzecchi detto Mirko, rom harvato nato a Postumia di Grotte (Trieste), da madre rom e padre gagio (termine che in lingua romanes indica i non-rom) «sposati regolarmente in chiesa», ci tiene a sottolineare. Era bambino quando il padre partì soldato e non fece più ritorno, non riesce nemmeno a ricordarne il volto. Con la madre si trasferirono dal nonno, un fabbro stimato dai contadini della zona, che in cambio gli davano pane, patate e qualche soldo. «Una sera, uno di loro venne ad avvisarci di scappare, perché quella notte sarebbero venuti a bruciarci la casa. Facemmo appena in tempo: vedemmo la casa in fiamme». Dì lì iniziò una lunga fuga a piedi, fino a Udine, sotto i bombardamenti. «Ricordo le urla di mia madre, che mi nascondeva dietro la sua ampia gonna perché io non vedessi i cadaveri a pezzi. Una volta, hanno preso due dei nostri ragazzi, ci hanno obbligati a scavare una fossa, fuori da un cimitero, li hanno legati col fil di ferro, gli hanno sparato e li hanno buttati dentro. Una notte, io e il mio amico dormivamo sotto un carro, sono arrivati due tedeschi ubriachi e ci hanno sparato. Mia madre ha urlato vedendomi, ma il sangue che schizzava a frotte era del mio amico, che è morto dissanguato la mattina dopo... C'era anche gente che ci aiutava, qualcuno ci dava da dormire nella stalla, a proprio rischio, e ci offriva un po' di polenta».
A Udine, anche Goffredo e la sua famiglia vengono catturati. Finiscono alla Risiera di San Sabba, a Trieste, poi vengono mandati nel campo di Teramo. «Mia zia invece è finita ad Auschwitz. È tornata, dopo la guerra, ma non era più normale; non si poteva parlare di ciò che era successo, perché lei cominciava ad urlare». A Teramo, Goffredo e i suoi vengono rinchiusi in baracche fetide, senza latrine, senza possibilità di lavarsi, senza cibo. «Eravamo pieni di pidocchi, arrivò anche il tifo». Da lì vengono spostati a Lipari, poi in Sicilia. Riescono a scappare, raggiungono Genova e nel frattempo la guerra finisce.
«Ci cercavano perché siamo rom. Certo. È come oggi. Non lo dicono, ma è come una malattia: tu, zingaro, sei sempre l'ultimo. Le mie figlie lavorano regolarmente, ma nessuno sa chi sono!».