In Nigeria Boko Haram,
in Somalia gli al Shabab, in Mali l'Aqim (Al Qaeda per il Maghreb
Islamico), in Centrafrica Seleka. Tutti movimenti armati espressione
dell'estremismo islamico, tutti più o meno dichiaratamente “filo
al Qaeda”. Tutti così forti da aver messo in ginocchio i governi e
gli eserciti dei rispettivi Paesi.
Guardando una carta del
Continente, salta all'occhio che i quattro Paesi messi sottosopra
dalle guerre civili “di matrice religiosa” vanno a formare quasi
una cintura che taglia in due l'Africa centro settentrionale da
quella australe.
Già un paio d'anni fa
si parlava, con forte preoccupazione, del rischio che si
concretizzasse una “federazione del terrore” dei maggiori gruppi
dell'estremismo islamico africano. Oggi si può dire che questa
saldatura è avvenuta, anche se non in termini di un movimento
politico-militare unitario, ma semplicemente come rete capace di
dividere e condividere finanziamenti, armi e intelligence.
Naturalmente, come
accade in realtà di dimensioni così enormi, l'andamento nei quattro
Paesi è molto diverso: in Nigeria, Boko Haram ha impazzato per tutto
il 2013 con attentati e azioni di sabotaggio in molti Stati della
federazione nigeriana, tanto che due di essi sono ancora in stato
d'emergenza. In Mali l'intervento militare francese iniziato nel
gennaio 2013 ha costretto i gruppi estremisti ad arretrare e a
“mimetizzarsi” nelle aree rurali e nelle montagne.
Quanto alla Somalia, ha
funzionato l'azione a tenaglia delle forze di pace interafricane,
della missione internazionale antipirateria e, soprattutto, delle
forze armate del Kenya, che hanno condotto pesanti campagne belliche
in territorio somalo costringendo gli Shabab sulla difensiva, dopo
aver perso molte posizioni strategiche. L'intervento kenyano è stato
decisivo, col risultato, però, di portarsi il terrorismo in casa:
l'azione al centro commerciale Westgate di Nairobi del settembre
scorso è stato solo l'attentato più eclatante di una lunga serie,
orchestrata dalla regia dell'estremismo islamico somalo.
La situazione più
difficile la vive il Centrafrica: la guerra civile prosegue furiosa e
la crisi umanitaria è arrivata al punto più critico.
In Africa, tuttavia, il
copione del terrorismo combattuto più per proclami che per azioni
strategiche risolutive non è diverso dalle altri aree critiche del
pianeta: si combatte, sì, ma non si vogliono mandare soldati dei
Paesi ricchi (il ricordo della Somalia del 1992-1994 brucia ancora),
si sostengono le popolazioni colpite dai conflitti, ma con risorse
insufficienti e a singhiozzo. Si interviene, sì, ma sempre troppo
tardi, quando il latte è versato (in Centrafrica i ribelli di Seleka
avevano conquistato Bangui, la capitale; in Mali, i francesi hanno
rotto gli indugi perché l'Onu non si decideva a muoversi e i gruppi
islamici marciavano su Bamako).
E soprattutto si
decidono i piani di intervento più con l'occhio al tornaconto
occidentale che alla reale efficacia nel combattere gli
estremisti/terroristi. L'esempio più evidente è proprio
l'operazione anti-pirateria lungo le coste somale: una montagna di
quattrini che serve di certo alla navigazione sicura dei nostri
mercantili, ma non aiuta a pacificare la Somalia, risolvendo così
alla radice il problema.
Insomma, anche in
Africa, tanto fumo ma poco arrosto.