Il silenzio. Prima nella stanza e poi, come una voragine, nel cuore. Il lutto si presenta così: ci zittisce. Ci spoglia. Talvolta ci arriva perfino a strappare la carne di dosso. Ne sanno qualcosa quei genitori che, come Margherita Rebuffoni Toffa, hanno visto morire prematuramente i propri figli. Il dolore è talmente acuto, folle e viscerale che l’eco della sofferenza si imprime nei loro sguardi, accompagnandoli per il resto dell’esistenza. «Chiunque perde un figlio è un genitore mutilato», conferma Margherita. Di quella mutilazione è dffcile parlare. Probabilmente non dovremmo nemmeno farlo, ma a insistere è lei stessa: una madre che non edulcora nemmeno un centesimo del suo dolore. Una madre che ammette come «a volte la solitudine diventa disperazione» e che non si capacita del «destino infame» toccato in sorte alla figlia. Ma che sa che, da qualche parte, c’è un senso più grande: nemmeno il dolore più cocente può travolgere quel dono meraviglioso che è la vita...
Il suo è un vero e proprio atto di fede…
«La vita è dura: non lo nego. Ho perso mia sorella Marilena quando aveva solo 21 anni, mia figlia Nadia è morta a 40 anni, mio marito ha avuto un aneurisma celebrale e mio padre è stato per circa sei anni sulla sedia a rotelle. La vita sa essere molto dura, ma va accettata: ognuno ha il proprio percorso. Io ho avuto la fortuna immensa di avere la fede, che mi ha aiutato e mi aiuta moltissimo». È sufficiente per resistere? «Ci sono dei momenti, anche molto lunghi, dove senti solo il peso della croce che ti porti addosso: non c’è altro che quel peso. Nient’altro. Bisogna però continuare a credere che la luce arriverà. Magari sarà piccola, ma arriverà e ti aiuterà ad andare avanti. Ai genitori che sono mutilati come me, consiglio di farsi aiutare, di pregare tanto, di cercare di trasformare questo dolore enorme in bene e di invocare la protezione proprio dei nostri cari che sono nell’Aldilà».
Anche Nadia condivideva la sua stessa fede?
«È sempre stata credente. Da bambina frequentava la parrocchia e ha studiato dalle Canossiane di Vitorchiano. Già prima che si ammalasse parlavamo spesso del senso della vita, del Paradiso, di Dio. La fede è un grandissimo dono ed è stata fondamentale durante la sua malattia. Nadia si confrontava molto con don Maurizio Patriciello: lui ha celebrato il suo funerale e siamo ancora in contatto. Inoltre ricordo che, quando i dolori si facevano così forti da mozzarle il fiato, mi diceva: “Mamma, aiutami a far scendere Gesù nel cuore e a far scendere nel cuore la zia Marilena che è il mio angelo custode”. Così, pregavamo insieme e piano piano il dolore passava. Magari la preghiera l’aiutava semplicemente a rilassarsi, sta di fatto che il dolore andava via».
La fede è sicuramente un sostegno, ma non toglie il dolore della perdita: crede che si possa, in qualche modo, arrivare preparati alla morte o è un mistero che bisogna semplicemente guardare?
«Non si arriva mai preparati. A un certo punto, però, capisci che devi lasciare andare la persona amata. Nell’ultimo periodo Nadia era molto peggiorata: purtroppo aveva avuto una nuova recidiva e non potevano più operarla (aveva già subito 5 operazioni, ndr). Le settimane passavano e io la vedevo cambiare: era sempre più stanca e sofferente. Un giorno mi resi conto che Nadia stava lottando perché non voleva lasciarmi nel dolore più atroce che esista al mondo (perché perdere un figlio è un dolore atroce!). Non so come io abbia fatto, né da dove mi sia arrivata la forza: è un momento di comunione profondissima tra madre e figlia, impossibile da descrivere. So solo che la vedevo stare male, spiritualmente ancora prima che fisicamente, e così le ho detto: “Non ti preoccupare, vola via”. E l’ho lasciata andare».
Nadia è sempre stata combattiva e ha accettato la malattia. Ma lei? L’ha accettata?
«È durissima, lo ripeto: è durissima. Però Nadia mi ha preparata a questo momento, “costringendomi” piano piano ad accettarlo: negli ultimi due anni mi continuava a ripetere di pensare alla Madonna, di affidarmi a lei che, così giovane, aveva provato il dolore più grande al mondo, ossia vedere suo Figlio crocifisso. “Mamma, quando non ci sarò più, tu devi continuare a fare quello che hai sempre fatto e amare la vita perché è un dono immenso di Dio”, aggiungeva sempre. “Non sprecare nemmeno un minuto di quello che ti è dato da vivere! Ricordati che sarò sempre lì vicina a proteggerti”. Si parlava di questo: lei per consolare me e io per aiutare lei…».
Da qui è nata dunque l’idea della Fondazione?
«Sì, volevo rendere concreto il desiderio di Nadia di aiutare l’istituto neurologico Besta di Milano, dove è stata curata dal dottor Finocchiaro. Nadia mi ha anche lasciato tantissimi scritti, poesie, appunti, dipinti: insieme alla casa editrice Chiarelettere stiamo valutando cosa pubblicare, oltre al libro Non fate i bravi».
Secondo lei qual è insegnamento più bello lasciato da sua figlia?
«La raccomandazione che abbiamo scelto come titolo del libro: Non fate i bravi. Nadia me lo diceva spesso: è troppo semplice fare i bravi, stare nel proprio piccolo, non pensare male di nessuno, fare piccole offerte. Non fare i bravi vuole invece dire metterci la faccia, litigare per le proprie idee, anche a muso duro. Solo così possiamo aiutare gli altri: se non facciamo i bravi».