Mai come in questo periodo si è parlato tanto di scuola: ci sono le preoccupazioni delle famiglie che hanno già visto i loro figli troppo isolati e che di un ritorno alla didattica a distanza non vogliono nemmeno sentir parlare; c’è il mondo della politica che non può permettersi di perdere la sfida della ripartenza; c’è la preoccupazione degli scienziati che faticano a prevedere cosa succederà davvero. E ci sono anche tante polemiche inutili, che non aiutano a prendere le decisioni migliori. «Se c’è una priorità da cui ripartire sono il milione di studenti che di fatto non hanno potuto seguire le lezioni a distanza nelle settimane dell’isolamento», dice convinta Mariapia Veladiano.
La scrittrice vicentina ha dedicato un’intera vita alla scuola, come insegnante e poi come preside. «È stato il mio mondo per 39 anni, quasi quasi 40. E anche se dal 2019 sono in pensione, in parte lo è ancora», sorride. Veladiano segue con attenzione il dibattito sul ritorno tra i banchi, ha approfondito sulla stampa estera cosa succede negli altri Paesi e si tiene in contatto con ex colleghi dirigenti per conoscere gli ultimi sviluppi. «Nei mesi del lockdown», argomenta, «ho visto che la crisi ha fatto mobilitare grandi energie nella scuola. Quello che hanno fatto i bravi insegnanti è quasi un miracolo: hanno reinventato la didattica, lavorando molto di più. L’ho sempre detto: il mondo degli insegnanti è molto migliore di quanto non lo si dipinga anche se è vero che oggi, sempre più spesso, l’insegnamento non è più la prima scelta professionale ma un ripiego. E questo è un problema».
Secondo lei i risultati sono stati comunque insoddisfacenti?
«Anche nella scuola la pandemia ha allargato le disuguaglianze. Dove già c’erano scuole d’eccellenza la qualità è addirittura aumentata, grazie all’abitudine all’innovazione e al tessuto socioculturale vivo e ricco in cui questi istituti generalmente sono immersi. L’aspetto cruciale è che lì i genitori hanno potuto subito mettere a disposizione una stanza, un computer, una buona connessione, un po’ di supervisione… Dove invece c’era un divario sociale, economico e tecnologico, si è aperta una voragine. I dati ufficiali del ministero dicono che 400 mila bambini e ragazzi non sono stati raggiunti dalla didattica a distanza, ma secondo la Fondazione Agnelli il numero più realistico è di un milione su otto milioni di studenti. In entrambi i casi, comunque, troppi».
Cosa non ha funzionato?
«Il Governo ha mobilitato ingenti risorse: sono stati messi a disposizione degli studenti indigenti migliaia di computer, ma dove il tessuto familiare è fragile non è bastato. È come dare una scatoletta che non si può usare».
A sessant’anni di distanza il nodo è sempre quello denunciato da don Lorenzo Milani: la scuola deve essere un’opportunità prima di tutto per chi non ha libri in casa (oggi anche computer) né genitori diplomati o laureati. Non si possono fare parti uguali tra disuguali…
«È così. La scuola pubblica ha il compito di ridurre la disuguaglianza e si deve occupare prima di quelli che rischia di perdere. In realtà, anche prima della pandemia, i dati dicevano che i figli scelgono ancora la scuola superiore frequentata dai genitori. Non c’è molta mobilità sociale».
La scuola oggi è al centro dell’attenzione. Tutto sommato è un bene. Peccato però che gran parte dei discorsi non siano sul cuore del problema: si preferisce dibattere di mascherine sì o no e banchi con le rotelle. Di cosa sarebbe più costruttivo discutere?
«Riaprire le scuole è davvero un’operazione complessa. Chi dice che all’estero non ci sono stati problemi dovrebbe leggere i giornali stranieri. Scoprirebbe che la situazione è simile alla nostra: nessuno sa come far ripartire pienamente la scuola se non in gruppi molto piccoli e isolabili. Da noi, però, si aggiunge la carenza cronica di spazi e risorse. L’unica soluzione, mi pare, sarebbe creare un grande patto tra tutte le persone coinvolte: alunni, famiglie, docenti, dirigenti e politici. Occorre disponibilità da parte di tutti anche a cambiare insieme rotta, perché nell’incertezza ciò che ora va bene, domani potrebbe non essere più adeguato. Non c’è un’altra strada nelle situazioni complesse. E invece abbiamo assistito a decisioni tutto sommato autoritarie: “Tranquilli, abbiamo un piano…”. Salvo poi scaricare le responsabilità su presidi e docenti».
In concreto, cosa si poteva fare di diverso?
«In Italia abbiamo una grande risorsa: il volontariato. Come siamo andati a portare i pacchi viveri agli anziani (e lo hanno fatto in molti, anche mio figlio), nelle settimane della didattica a distanza avremmo potuto chiedere aiuto al mondo del volontariato per affiancare gli studenti. Siamo ancora in tempo per andare in questa direzione. Per esempio, il Liceo Bottoni di Milano ha preso accordi con l’associazione Non uno di meno (formata da ex insegnanti, professionisti, persone preparate) che seguirà a turno i gruppi di studenti che non possono entrare nelle classi per ragioni di capienza. Qualcuno dice: ma la scuola è compito dello Stato. Vero, ma siamo in un’emergenza. Quando c’è l’alluvione, nessuno fa polemica perché i volontari contribuiscono a spalare il fango. Lo Stato deve fare il coordinamento, ma il volontariato può dare un contributo indispensabile. Tutto questo ha anche effetti positivi sulla coesione sociale, si creano alleanze nel quartiere… è un patrimonio che resterà anche dopo la pandemia. Non è pensabile che lo Stato possa assumere a breve migliaia di nuovi insegnanti. E si finirebbe per usare la scuola come strumento per dare occupazione».
Va in questa direzione anche la disponibilità data da tante diocesi, tra le quali Roma, Milano e Torino, a ospitare classi negli spazi delle parrocchie e degli oratori…
«E si è mosso anche il mondo laico. È il segno che c’è una comunità a cui interessa la scuola al di là del diploma. Cui interessano gli studenti in quanto persone. Siamo tutti padri e madri gli uni degli altri».
Si capisce che per lei la scuola è una passione. Da credente, si può dire sia la sua vocazione?
«È la mia vocazione nel senso che è il mio posto nel mondo. Per volontà di Dio. Non nel senso di una specie di eroismo: tanti insegnanti fanno più di ciò che dovrebbero, eppure non tutti sono credenti».
Nella scuola quali sono stati i suoi esempi?
«Ho grande ammirazione per gli insegnanti che sanno “vedere” il ragazzo che hanno davanti. Faccio un esempio. Il modo di vestire degli studenti è sempre stato al centro di un dibattito ideologico: il decoro, la lunghezza delle gonne, l’ammissibilità delle canottiere o degli accessori dark di metallo… In tante scuole ci sono dettagliati regolamenti su ciò che è ammesso e ciò che non lo è. Nel mio istituto invece la regola era “abbigliamento adeguato”. Da lì partiva il confronto con gli studenti che convocavo se ritenevo il loro abbigliamento “non adeguato”. Se ne parlava: cosa vuol dire essere liberi? Esprimersi? Manifestare la propria personalità? Fino dove arriva la mia libertà?».
Una faticaccia!
«Ma una fatica buona. Era un’esperienza profondamente educativa. E tenga conto che ero preside in un Liceo artistico, una scuola “creativa”, dove sembrava anche normale presentarsi in classe con i capelli rosa…».
Dopo il saggio dello scorso anno Parole di scuola (edizioni Guanda), sull’esperienza da insegnante, sta lavorando a un nuovo libro?
«Ho terminato un romanzo che arriverà in libreria il prossimo gennaio, pubblicato dall’editrice Guanda. S’intitola Adesso che sei qui. È una storia di fragilità e cura che ho scritto prima della pandemia ma che ora è anche in forte consonanza con l’esperienza che abbiamo vissuto».
A proposito: il lockdown è stato un momento fecondo per l’ispirazione?
«Proprio no. Non avrei potuto scrivere nemmeno un raccontino. Ho avuto il grande privilegio di vivere in una casa grande con un bel giardino ma mi sono sentita molto “appiccicata” in un mondo che non si poteva più governare con la razionalità. È stata un’esperienza dolorosa. Però ho letto tantissimo: classici, nuovi romanzi… di tutto».
In definitiva, cosa si augura per la ripresa della scuola?
«Che non si parli più di sedie con le rotelle. Mi auguro che si recuperi nelle scuole e – perché no, anche al Ministero – un’alleanza collettiva. Non serve il ministro o il manager che risolve quasi magicamente i problemi. E poi che si guardi ai bambini e ai ragazzi: occorre trovare le parole per spiegare loro cosa è accaduto, cosa sta accadendo e che scuola potremo fare finché ci sarà la pandemia. Credo che un triennio di liceo possa anche seguire le lezioni da casa. Invece i bambini devono tornare in classe, ma con i grandi numeri che sono coinvolti sarà molto complicato».
(Foto in alto di Beatrice Mancini)