Cari amici lettori, è dal mese di dicembre ormai che il caso di padre Marko Rupnik, il gesuita che per anni è stato direttore del Centro Aletti, sta facendo discutere. Si tratta di un caso clamoroso sia per gli abusi di cui è accusato (nei confronti di donne consacrate), ma anche perché, godendo di grande notorietà pubblica come mosaicista, teologo e conferenziere, Rupnik ha un certo seguito tra i fedeli cattolici. La sua vicenda ha provocato in diverse persone disorientamento e anche scandalo, per le accuse pesanti che – se confermate – gettano un’ombra non solo sulla persona ma anche sulle sue opere, sparse in una miriade di luoghi, dalla cappella Redemptoris Mater in Vaticano a San Giovanni Rotondo, da Fatima a Lourdes.
Proprio il vescovo di Lourdes ha sollevato il dubbio se sia opportuno tenere le sue opere nel santuario, frequentato da milioni di persone, tra cui anche vittime di abusi in cerca di sollievo e conforto. Che cosa diranno o potranno sentire le vittime, ferite nell’anima e nel corpo, di fronte a opere che inevitabilmente saranno associate a un uomo accusato di aver perpetrato delitti che toccano il loro vissuto? Conscio di questa situazione, in una Chiesa come quella francese che recentemente è stata scossa da numerosi altri casi di abusi, il vescovo ha affidato a una commissione la valutazione circa l’opportunità o meno di mantenere le opere di Rupnik nella basilica mariana.
Un problema analogo si potrebbe porre per i tanti libri di spiritualità di Rupnik. Qui si può far valere la distinzione tra l’uomo e l’opera, che si tratti di scritti o di mosaici. Come ha osservato Giovanni Salmeri su Settimana News, nella tradizione latina (occidentale) è uso distinguere tra teologia e fede personale: si è cioè «inteso l’esercizio teologico come un compito intellettuale importante sì, legato oggettivamente ai contenuti della fede cristiana sì… ma anche non necessariamente connesso alla vita di fede personale». Questa distinzione può essere un aiuto, dato che si tende piuttosto a fare della teologia (che è pensiero) una «variabile della fede personale».
Rimane però una certa sensazione di disagio. Vuoi perché si tratta di una persona dalla vasta notorietà pubblica, così che è quasi impossibile dissociare persona e opera, vuoi perché si tratta di delitti odiosi, connessi oltre tutto a esternazioni imbarazzanti, secondo quanto è stato riferito dalle vittime. Questo dovrebbe farci riflettere: più che cercare una parola “risolutiva” sul caso Rupnik in questo momento, emerge una questione relativa al “culto della personalità”, troppo spesso tributato a figure di leader spirituali dalla forte personalità, che non ammettono discussioni o repliche. Ma un leader non sostituisce la nostra personale responsabilità della fede, la capacità di avere un pensiero autonomo anche su ciò che accade nella Chiesa. Questo implica un esercizio magari difficile: il confronto con chi è “in autorità” senza essere succubi o intimiditi perché “se ne sa di meno”. Tutti – in quanto battezzati – siamo portatori di un’unzione dello Spirito, come ci ricorda spesso papa Francesco, abbiamo fiuto e sensibilità per le cose di fede. Che vuol dire: d’accordo la fiducia per chi è “in autorità” d’ufficio, ma senza rinunciare alla responsabilità di fare le proprie valutazioni, senza trasformare i leader in “guru”. E questo è un potere che è solo in mano nostra.