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mercoledì 16 ottobre 2024
 
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Taralli al profumo di libertà: il reinserimento dei carcerati grazie alla masseria San Vittore di Andria

10/01/2024  Alla masseria San Vittore di Andria, da cinque anni il tarallificio A mano libera offre ai carcerati calore umano e un’opportunità di reinserimento. Merito del progetto visionario di un prete e della Chiesa locale che ci ha creduto

Foto nell'articolo di Maia Pansini
Foto nell'articolo di Maia Pansini

L’odore del carcere e il profumo della farina. È anche questione di olfatto la differenza tra il prima e il dopo. «È fatto di fumo, sudore e rabbia l’odore del carcere. È la tensione che non scarichi mai. Puoi lavarti quanto ti pare, ma quel tanfo lo hai sempre addosso»: Massimo, 49 anni, ama stare all’aria aperta. Quando può raggiunge l’orto e la stalla, ma il lavoro principale è al grande tavolo dove, con altri carcerati, intreccia le strisce di pasta, le trasforma in taralli, destinati ad allietare palati e far lievitare addomi.  Siamo in un’antica masseria, in Alta Murgia, alle pendici di Castel del Monte, nella campagna di Andria. È qui che è nato Senza sbarre, progetto che attua misure alternative al carcere. I taralli dai gusti più vari – i classici scaldati, al grano rustico, ai cereali, alla cipolla, alla curcuma, ai semi di finocchio, al peperoncino – si sono rivelati la risposta possibile a una domanda di civiltà: quali luoghi e percorsi alternativi al carcere per chi ha sbagliato?

La grande masseria San Vittore trasformata in tarallificio è infatti una sorta di parabola, che vede protagonisti la caparbietà di un prete, don Riccardo Agresti, la lungimiranza di un vescovo, monsignor Luigi Mansi, la “complicità” di un magistrato, Giannicola Sinisi. Insieme all’infinita pazienza e abilità culinaria di Nunzia, la sorella del “don”, senza la quale difficilmente tutta la baracca starebbe in piedi. E alle vite ferite di circa 100 uomini, che in questi 5 anni sono passati intorno a questi tavoli. Esistenze complicate, scomode, a volte tossiche. «Il fallimento è all’ordine del giorno. Qualcuno ce l’ha fatta, pochi. Qualcuno, come Vincenzo, ergastolano, resterà con noi. L’importante è offrire una possibilità», spiega don Agresti.
La storia inizia nel 1992, quando don Riccardo, classe ’61, prete della diocesi di Andria, viene mandato nella parrocchia Santa Maria Addolorata alle Croci, nel quartiere Camaggio. Ben presto si rende conto che i tanti papà che mancavano all’appello durante le riunioni delle famiglie non lavorano al Nord, come dicevano le mamme, «ma erano a pochi passi, via Andria 300, in carcere. Anche loro erano miei parrocchiani, sono andato a incontrarli. E dentro di me è maturata una ribellione, perché ho capito che il carcere è anticostituzionale, la rieducazione è insufficiente».

I primi passi della masseria San Vittore di Andria: la resistenza del vescovo e la lettera a Benedetto XVI

 

In parrocchia don Agresti si era convinto sempre più che il riscatto passa «attraverso l’educazione e l’utilizzo degli strumenti che il territorio mette a disposizione» e per i più giovani – in rete con scuola, volontariato e istituzioni – aveva dato vita al Centro di aggregazione “Insieme per Camaggio”. Ma il pensiero dei papà in galera era costante. Così insieme a un confratello, don Vincenzo Giannelli, continua le visite e intanto pensa a un progetto alternativo al carcere, dove scontare la pena “senza sbarre”.

La cosa non convince il vescovo di allora, ma i due preti non desistono e cominciano a incontrare uomini di Dio che con il disagio si sono sporcati le mani, come don Luigi Verdi di Romena, che li esorta ad andare avanti. Mentre la rete di amici, anche illustri, come Claudio Baglioni, che li ha sostenuti per la nascita dell’oratorio, resta ben stretta. I due sacerdoti scrivono anche una lettera a Benedetto XVI, che si era appena dimesso, e vengono ricevuti a Roma. E, dopo una settimana, ad Andria arrivano un libro autografato e uno zucchetto bianco. «Per me è stato un segno benedicente», dice il prete.

Si individua una masseria abbandonata nelle periferie di Andria, dove in un primo tempo era stata accolta una comunità di don Gelmini. Nel frattempo il vescovo è cambiato. E così la diocesi, la Caritas e la Cei, nel 2017, con 200 mila euro provenienti dai fondi dell’8xmille, contribuiscono ai lavori di ristrutturazione. Don Riccardo riceve il mandato di seguire il progetto, lascia la parrocchia di Camaggio. E nel dicembre 2018 viene creata la cooperativa A mano libera che dà lavoro ai detenuti.

La rete di don Riccardo che aiuta i carcerati e la benedizione di don Luigi Mansi

  

Il vescovo di Andria don Luigi Mansi alla masseria

 

«Questa non è un’iniziativa presa a titolo personale da don Riccardo, lui è prete di Andria, e il progetto è l’espressione di una Chiesa, che sceglie di impegnare un suo presbitero non nel classico lavoro della parrocchia ma in un progetto per i carcerati, per lanciare questo annuncio: un uomo può sbagliare, ma se accetta di rieducarsi può farcela. È un grande insegnamento anche per i giovani», dice il vescovo.

Monsignor Luigi Mansi è di casa alla masseria. Arriva scortato dai detenuti che sono andati a prenderlo in episcopio, ad Andria: una familiarità che dice lo spirito dell’esperienza. «Qui è in gioco la credibilità di una Chiesa che intorno a don Riccardo ha costruito una rete di persone che collaborano con passione, puntando sulla rieducazione attraverso un lavoro onesto, un guadagno che chiede fatica. È la conquista dell’onestà, che non si fa con il soldo facile», aggiunge il pastore.

Alla masseria, oltre ai locali per la lavorazione e i forni, c’è uno spazio per i detenuti, una cappella, alloggi per i due sacerdoti e per qualche volontario. L’équipe di operatori vede in prima fila, in cucina, la signora Nunzia, che nel tempo ha trovato la “sua” ricetta dei taralli, con materie prime naturali di qualità e a chilometro zero, e impartisce i ritmi di lavoro, facendo marciare la produzione di venti quintali a settimana. Poi c’è Marilena, giovane della parrocchia di Camaggio, che gestisce il lavoro di segretaria e, quando la piccola comunità al Vespro si ritrova nella cappellina sul prato, accompagna le preghiere e la conversazione spirituale con la sua voce potente.

Il magistrato Giannicola Sinisi e la masseria San Vittore: l'importanza della giustizia riparativa

A sinistra, il magistrato Giannicola Sinisi alla masseria san Vittore

Segue con attenzione l’intera vicenda un altro amico della squadra, il magistrato Giannicola Sinisi, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Bari. Anche lui è andriese doc, conosce la città nelle sue ferite e nelle sue potenzialità, sa i legami e gli affari delle varie famiglie criminali che infestano il territorio. «Conosco don Riccardo da 30 anni, quando lui era parroco e io avevo interrotto la carriera di magistrato per fare il sindaco di Andria, carico di passione civile e di sofferenza. Avevo lavorato con Giovanni Falcone, che era stato ucciso un anno prima».

Sinisi collabora alla realizzazione dell’oratorio, investe sulla periferia di Camaggio, e quando l’amico prete gli parla della nuova avventura in carcere, lo mette in guardia: «Dovrai scavare a fondo nelle persone, è una materia grezza, a volte educata dalla legge della forza e della violenza. Una strada piena di delusione, difficoltà, ingratitudine. Non ci saranno genitori che ti verranno a dire grazie, anzi ci saranno famiglie che saranno contro di te. Ti esporrai a dei rischi». Dopo gli avvisi, come si fa tra veri amici, il magistrato mette a disposizione la sua competenza ed esperienza. «Mi sono messo accanto a lui, prima di tutto per amicizia e affetto, ma anche perché sono convinto che si tratti di un progetto profeticamente lungimirante, che nasce 6 anni fa, quando la riforma Cartabia non esisteva ancora».

Sinisi spiega perché crede nelle pene alternative: «Sin da quando è nato, il carcere ha mostrato mille contraddizioni e oggi sono evidenti tutti i suoi limiti. Sia chi lo fa per ragioni umanitarie, sia chi lo fa per motivi di sicurezza, sa che il carcere è uno strumento superato. Dobbiamo impegnarci per forme ed esperienze nuove». Le statistiche, sottolinea il magistrato, dicono che il 75 per cento di chi è stato in carcere ci ritorna, il 90 per cento non trova un lavoro regolare. Senza contare suicidi e condizioni disumane, studi sociologici indipendenti dimostrano che dopo un periodo in carcere si dimenticano le ragioni per cui si sta dentro e si ragiona semplicemente sulle condizioni in cui si vive, trasformando i carnefici in vittime, persone che una volta scontata la pena non provano una doverosa volontà di riconciliazione o di risarcimento, ma hanno rancore nei confronti delle istituzioni che hanno sottratto loro la libertà, costringendoli a vivere in condizioni non umane.

«L’originalità del progetto Senza sbarre è che le persone affidate sono rieducate e reinserite socialmente insieme e non separatamente. C’è semilibertà, affidamento in prova ai Servizi sociali, detenzione domiciliare. Il progetto ha come fondamento la creazione di una rete di sostegno, di ascolto e di accoglienza residenziale e semi-residenziale nel territorio di Andria, per persone sottoposte a provvedimento privativo o limitativo della libertà personale». Inoltre la lungimiranza del progetto, secondo Sinisi, è nel fatto che oltre a offrire una struttura alternativa al carcere e un possibile inserimento socio-lavorativo, ha una specifica valenza ecclesiale, vale a dire il provare la strada «della riconciliazione tra le vittime e i carnefici, la pacificazione sociale che passa attraverso l’incontro tra autori e vittime dei reati. È la strada della giustizia riparativa».

Per questo particolare aspetto del progetto, che richiede competenze specifiche, ci si è appoggiati alla cooperativa Crisi (Centro ricerche e interventi sullo stress interpersonale) di Bari che ha venti anni di esperienza in questo settore, con messa alla prova nella pubblica utilità. «Per fare giustizia riparativa un luogo di segregazione come il carcere non è adeguato. Ci vuole uno spazio di incontro “altro”». Non è una strada facile, dice Sinisi: «Conosciamo i pericoli di nuove vittimizzazioni, non vo vogliamo far del male, si può provare quando l’oblio ha lenito le ferite, anche se solo parzialmente. La riconciliazione accompagna il lavoro di rieducazione e un’altra strada che seguiamo è provare a ricucire con le famiglie degli affidati».

La redenzione di Massimo: una storia di successo di reinserimento dalla masseria

  

È l’esperienza che racconta Massimo: «Sono nato in una famiglia perbene. Ma sin da piccolo ho nascosto la mia insicurezza rifugiandomi in una vita ai margini, usando droghe e rubando per procurarmele. Poi ho trovato lavoro in Veneto, ho messo su famiglia: tre figli. Ma dopo il divorzio sono tornato giù dai vecchi “amici”». Viene condannato a 18 anni per traffico internazionale di stupefacenti. «In carcere non avevo più nulla da perdere. Facevo casino. Da anni non vedevo i miei figli». L’avvocato gli fa conoscere don Riccardo. Accetta la proposta e da luglio 2022 è in affidamento in via residenziale. «Qui sono sereno. Faccio introspezione, cerco di capire cosa cambiare. Ho potuto riabbracciare i miei figli. Sono come degli amici, una cosa bella nella mia vita, positiva. Quando sono uscito ero un disastrato. Non mi rendevo conto che tutto era cambiato. Anche il telefonino per me erano un altro mondo».

La masseria San Vittore verso il futuro

La masseria nei prossimi mesi sarà allargata, per permettere altro lavoro e nuovi spazi: «L’edificazione di un mulino in pietra, farina con grani antichi, il grano grezzo dell’inclusione, molto più pregiato, e alloggi per i volontari o per chi vuole fermarsi a conoscere il mondo carcerario», spiega don Riccardo.

La qualità del prodotto unito all’eticità del progetto ha fatto arrivare i taralli nelle case di molti italiani, grazie ad alcune catene della grande distribuzione. E l’8 marzo scorso, sul sagrato di San Pietro, un cesto di vimini con le specialità della masseria di San Vittore è arrivato anche nelle mani di papa Francesco, consegnato dai protagonisti del progetto. All’orizzonte l’apertura al mercato estero, negli Stati Uniti.

Don Agresti sa che i successi sono solo pause nell’affanno dei mille problemi quotidiani. Ma, dopo anni di lavoro, ha capito che la sua strada è questa. «L’esperienza è maturata in quasi trenta anni. Seguire nostro Signore non è lo svelamento del tutto e subito, ma percepire lo stupore quotidiano. In quello stupore c’è dialogo tra il cuore di un fragile e il cuore di Dio, che nelle sue braccia ti accoglie e ti consola».

 
 
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