Massimo Sgrelli, 76 anni, è stato per oltre quindici anni capo del Dipartimento del Cerimoniale di Stato di Palazzo Chigi. Ha scritto "Il cerimoniale moderno e il protocollo di Stato"
Ha inventato la cerimonia della campanella che segna il passaggio di consegne tra il governo uscente e quello entrante. Su pressing asfissiante di Cossiga, ha coniato il titolo di "emerito" per gli ex presidenti della Repubblica scrivendo un Dpcm ad hoc. Una volta si beccò gli improperi di Spadolini che ad una cerimonia non voleva sedersi dopo un cardinale. Fino a far andare su tutte le furie alti papaveri e grand commis dei Palazzi romani per aver codificato l'ordine delle precedenze delle cariche pubbliche nelle cerimonie nazionali, dai presidenti delle Camere fino all'ultimo assessore dell'ultimo comune di provincia.
Massimo Sgrelli, 76 anni, romano, è stato a capo del Dipartimento del Cerimoniale di Stato di Palazzo Chigi dalla metà degli anni Ottanta fino al 2008. Ha visto sfilare diciotto governi, dal Craxi II al Berlusconi IV, e ha lavorato con quattordici presidenti del Consiglio.
Nel suo curriculum vanta diciannove onorificenze, da Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana a Commendatore dell'Ordine al Merito El Sol del Perù. Conosce perfettamente le regole scritte e non scritte del galateo istituzionale tanto da aver dato alle stampe Il Cerimoniale (Di Felice Editore) una summa con tutte le indicazioni su bandiere, precedenze, titoli da usare, onorificenze da sfoggiare e abiti da indossare. Cita Nietzsche («Migliorare lo stile significa migliorare il pensiero»), racconta vizi e vezzi del potere della Prima e della Seconda Repubblica e dà le pagelle agli ultimi governi.
Il suo arrivo a Palazzo Chigi?
«Nel 1985, c'era Craxi. Venivo dal ministero della Difesa. Da addetto, nel 1992 divento Capo del Dipartimento del Cerimoniale di Stato. Ho lavorato con Andreotti, Goria, De Mita, Craxi, Ciampi, Amato fino a Berlusconi e Prodi».
Quando debutta la cerimonia della campanella?
«Nel 1996, passaggio di consegne tra Dini e Prodi».
L'ha inventata proprio lei?
«Sì. Prima il passaggio avveniva all'interno dello studio del presidente del Consiglio dove si teneva un colloquio tra i due presidenti sui dossier più scottanti e urgenti. Nessuno vedeva nulla. Di solito, l'entrante era sempre più allegro dell'uscente. Lasciare il potere non è mai facile».
Il potere logora chi non ce l'ha.
«Appunto».
Torniamo alla campanella.
«Mi posi il problema di come far vedere e comunicare all'esterno questo importante momento istituzionale e quindi escogitai la stretta di mano e il passaggio della famosa campanella del Consiglio dei ministri che il premier uscente doveva consegnare a quello entrante davanti ai fotografi. Si tratta di una campanella d'argento con su scritto “Il presidente del Consiglio dei ministri” con la quale il capo del governo organizza le sedute, richiama all'ordine i ministri, avvia e chiude le riunioni».
La prima volta come andò?
«Non se ne accorse quasi nessuno. Neanche i giornalisti fecero molto caso. Col tempo è diventato il rito di passaggio per antonomasia. Adesso, non a caso, si allestisce quasi un set con i fotografi e i cameramen dietro ai cordoni di sicurezza a immortalare la scena che rimbalza su tutti i media e i social».
L'ultimo passaggio tra Conte e Draghi l'anno scorso?
«Molto cordiale, sobrio ed essenziale, in linea con il momento storico che stiamo vivendo».
Il più spettacolare?
«Quello del 2014 quando Enrico Letta cedette la campanella a Matteo Renzi senza neanche degnarlo di uno sguardo e andandosene via subito. La tensione era evidente. Sembrava quasi il set di un film».
Il più folcloristico?
«Quelli con Berlusconi che giocava con la campanella, ostentandola davanti ai fotografi. Era uno showman, ci teneva all'immagine. Prodi, invece, era molto più sobrio. Alla fine, anche Mario Monti, pur essendo un professore molto compassato, iniziò a scampanellare quasi divertito».

Massimo Sgrelli con Romano Prodi in udienza da Giovanni Paolo II
Craxi com'era?
«Un leader che, al pari di Berlusconi e Renzi, si era appropriato del partito e quindi voleva gestire anche gli eventi istituzionali apparendo come un leader».
Andreotti?
«L'esatto contrario. Non aveva quest'attitudine e neanche l’aspirazione. Si riteneva un uomo d'apparato. Anzi, era il capo supremo dello Stato apparato dove ogni regola andava minuziosamente rispettata e ogni segreto preservato e tutelato a difesa dello Stato stesso. Per lui la ragion di Stato prevaleva su ogni altra cosa, ne era in qualche modo il principe e quindi il cerimoniale era sacro. Arrivava sempre con qualche minuto d'anticipo in modo da essere puntualissimo e sempre con l'abito giusto».
Nella seconda Repubblica chi gli somigliava di più?
«Gianni Letta, il cerimoniale fatto persona. Anche se non è mai stato presidente del Consiglio, per savoir-faire e carisma era come se lo fosse. Era l'angelo custode di Berlusconi. La sua scrivania era sempre sgombra e pulita perché dal punto di vista organizzativo era il massimo dell'efficienza. Ogni dossier che gli arrivava lo sbrigava in pochi minuti e lo smistava a chi di competenza. Una macchina perfetta».
I presidenti più ritardatari?
«Giovanni Goria (presidente del Consiglio dal 1987 all'88, ndr) era molto spontaneo, probabilmente anche a causa della giovane età. Arrivava spesso in ritardo. Come Berlusconi con il quale dovevamo inventarci il quarto d'ora accademico e far fronte in qualche modo agli imprevisti. Una volta a un vertice Nato c'era Angela Merkel che lo aspettava per stringergli la mano e passare insieme in rassegna gli apparati militari schierati per gli onori e lui era al telefono con Erdogan».
Romano Prodi.
«Molto attento alla sostanza, rispettava il cerimoniale senza debordare mai. Arrivava puntualissimo in ufficio alle 8 e mezza e aveva un'attenzione maniacale per i dati economici e in particolare per le performance dei distretti industriali. Giuliano Amato, invece, era più attento agli aspetti giuridici. Sono grato a entrambi perché, dal punto di vista del protocollo, seguivano fedelmente quello che gli suggerivo».

Sgrelli con Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio
L'incidente più clamoroso che le è capitato?
«Eravamo all'Altare della Patria per la visita di Stato del nuovo presidente della Slovacchia dopo la divisione in due della Cecoslovacchia del 1993. La cerimonia prevedeva l'alzabandiera e l'esecuzione degli inni nazionali. La banda militare esegue quello del Paese ospite e alla fine si avvicina l'ambasciatore slovacco per dirmi: “Scusi, ma che cosa avete suonato?”. Fu un momento di grande imbarazzo, risposi che si trattava di una marcia d'onore. In realtà, il maresciallo responsabile della banda aveva confuso la Slovacchia con la Slovenia. Dopo quell'episodio fu declassato e spedito in archivio».
I più formali all'estero chi sono?
«Gli orientali. Una volta arrivò a Milano una delegazione della Cina guidata dall'attuale presidente Xi Jinping e l'allora presidente Roberto Formigoni non solo non si fece trovare in sede per l'accoglienza ufficiale ma il cerimoniale non aveva neanche esposto la bandiera cinese sul Pirellone. La delegazione, molto contrariata, fece dietrofront e se ne andò. Fummo costretti a presentare scuse formali per recuperare l'incidente e non fu impresa facile perché gli orientali ci tengono molte alle formalità che, giustamente, considerano sostanza».
Per un addetto al cerimoniale qual è l'occasione più ostica da gestire?
«Il ricevimento al Quirinale e la parata ai Fori Imperiali del 2 giugno. Ci sono centinaia di cariche pubbliche da sistemare in ordine di rango e importanza e non è facile, anche perché tutti sgomitano per avere i primi posti. Per questo motivo, nel 2006, ho stilato un ordine delle precedenze delle cariche che è poi diventato legge con il Dpcm del 14 aprile 2006. Dopo che venne pubblicato in Gazzetta Ufficiale non potevo più uscire dall'ufficio».
Addirittura.
«Ricevetti un sacco di proteste e rimproveri. Ognuno si lamentava perché, a suo dire, gli avevo assegnato un posto in una categoria inferiore al proprio rango».
In sintesi cosa prevede l'ordine?
«È suddiviso in sette categorie. Nella prima ci sono i presidenti delle Camere, il presidente del Consiglio dei ministri, il presidente della Corte Costituzionale e i presidenti emeriti della Repubblica. Nell'ultima, tra gli altri, i consoli onorari, i vicesindaci e i presidenti degli ordini professionali nazionali».
Prima di questa legge come ci si regolava?
«Con le leggi non scritte del cerimoniale. Una volta, erano gli anni Ottanta, alla cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario l'allora presidente del Senato Giovanni Spadolini arrivò e vide che il suo posto era stato assegnato dopo quello di un cardinale. Andò su tutte le furie, protestò vivacemente con me e se ne andò».
E lei?
«Gli spiegai che secondo una regola che discende dai Patti Lateranensi i cardinali di Santa Romana Chiesa sono riconosciuti dallo Stato italiano come prìncipi reali perché un giorno possono diventare Pontefici. In pratica, sono assimilati, come rango, agli eredi al trono, come è accaduto a Carlo d'Inghilterra diventato nuovo sovrano del Regno Unito dopo la morte della regina Elisabetta».
Lo convinse?
«Non tanto. Mi disse che si sentì scavalcato».

Francesco Cossiga (1928-2010) e Giulio Andreotti (1919-2013) nel 1991 (Ansa)
Ma è vero che Cossiga la bersagliava di telefonate ogni mattina all'alba?
«Sì. Era il 2001. Non gli andava giù, dopo la fine del mandato al Quirinale, di essere chiamato ex presidente della Repubblica perché gli dava l'idea di qualcosa di scaduto, come lo yogurt. Mi chiese di trovare un titolo più dignitoso e onorevole».
Una bella grana.
«Proposi prima una soluzione alla francese, “ancien prèsident”, ma non gli andava bene per via dell'aggettivo. Alla fine, trovai la definizione di “presidente emerito della Repubblica”».
Tutto risolto.
«Macché. Essendo in vita altri due ex presidenti, Giovanni Leone e Oscar Luigi Scalfaro, prima di procedere bisognava per correttezza interpellare anche loro e domandargli se questa soluzione gli era gradita».
Cosa le risposero?
«Scalfaro si mostrò disinteressato, per lui una soluzione valeva l'altra. A Leone l'appellativo di emerito non piaceva affatto perché, da buon napoletano, gli ricordava un'espressione gergale del suo dialetto alquanto offensiva: "chill'emerito...". Poi dopo la morte di Leone potei procedere. Alla fine di questa lunga trattativa collaborai alla stesura di un Dpcm ad hoc sul trattamento riservato agli ex presidenti della Repubblica che prevede, tra le altre cose, che se un ex presidente si sposta in forma ufficiale e lo fa in treno gli spetta uno scompartimento intero all'interno del vagone».
Come giudica la gaffe di Draghi che l'anno scorso non si fermò per l'omaggio a Tricolore durante l'insediamento a Palazzo Chigi?
«Un peccato veniale dovuto all'emozione e alla concitazione del momento. In realtà, doveva essere il comandante che lo accompagnava nella rassegna del reparto a istruirlo prima di partire. Anche perché la bandiera era posta in un angolo e non si vedeva neanche benissimo».
Un giudizio su Giuseppe Conte?
«Ha sempre rispettato le regole sia nel portamento che nell'eloquio mantenendo uno stile istituzionale. Cosa che oggi non è molto diffusa e neanche scontata. Molti protagonisti politici attuali sono poco attenti allo stile istituzionale».
A chi si riferisce?
«I leghisti quando giurano da ministri hanno sul bavero della giacca la spilla con il logo della Lega. Non va bene perché un ministro della Repubblica italiana non può esporre simboli di partito. Questo si fa nelle dittature e nei regimi populisti e non negli ordinamenti democratici».

Sgrelli con Massimo D'Alema durante un viaggio di Stato
E i grillini?
«Hanno una spontaneità che a volte mal si concilia con lo stile istituzionale. Tranne qualche eccezione, come Di Maio, sempre abbastanza impeccabile, a parte qualche piccolo infortunio».
L'abbigliamento dei politici di oggi?
«Troppo informale. Ma non riguarda solo quelli italiani. Il leader di Podemos, in Spagna, una volta si presentò dal re Felipe VI in maniche di camicia. Molti oggi non rispettano le forme per mostrarsi più vicini all'elettore come se osservare uno stile istituzionale fosse un fattore di distacco dalla gente. Nei primi decenni della Repubblica in Parlamento si respirava quasi un'aura di sacralità anche se le discussioni erano vivaci e anche molto accese».
Mi dà una definizione di galateo istituzionale?
«L'insieme delle regole delle forme pubbliche. La forma è una sorta di biglietto da visita: dà la prima immagine di un'azienda, di un'istituzione, di una persona ed è quella che colpisce di più».
Perché il presidente della Repubblica nelle cerimonie ufficiali non siede più al centro della prima fila?
«Giorgio Napolitano, che è stato un grande e saggio presidente, nel suo settennato ha scelto di sedere non più al centro ma nel primo posto alla destra del centro. A molti è parso un gesto democratico ma si tratta di un errore perché la posizione del presidente della Repubblica è stabilita dal Protocollo di Stato che tiene in conto che egli è uno dei simboli nazionali e, come tale, ha una collocazione definita, rispettosa della natura simbolica della sua persona. Anche il presidente Mattarella ha mantenuto questa consuetudine forse per una difficoltà psicologica a ripristinare la vecchia regola».

Il presidente emerito della Repubblica, Giorgio Napolitano, 95 anni, nel novembre del 2015 (Ansa)