“Appena arrivato al Parco Verde, nella parrocchia che iniziavo a guidare a Caivano, mi giunsero le voci sui vari don del quartiere e della zona, i signorotti che spadroneggiavano. Pensai immediatamente che i parrocchiani non mi avrebbero mai chiamato don Maurizio, per allontanarmi assolutamente da quel mondo ed evitare qualsiasi confusione dovevo fare una distinzione. Ecco che, spiegai, preferivo essere chiamato padre Maurizio, o semplicemente Maurizio. Padre perché vorrei essere un padre il più buono possibile, nonostante le mie piccolezze”.
Padre Maurizio Patriciello, sacerdote nell’area campana tristemente nota come la terra dei fuochi per i roghi tossici di rifiuti bruciati che avvelenano l’aria, risponde così al perché al sud, diversamente dal nord Italia, alcuni sacerdoti preferiscono chiamarsi padre e non don, evitando pericolose confusioni. “Almeno per me è così. Il titolo don in passato era dato alle persone di rispetto, ai sacerdoti, poi anche dai boss. Come non ricordare don Vito Corleone, impersonato da Marlon Brando per il film Il Padrino? Io volevo assolutamente allontanarmi da questo modo di vedere e vivere la vita. Una scelta immediata, diretta a fare una distinzione netta tra il mio credo e il loro”.
La dichiarazione su questa invasione e confusione di titoli e ruoli tra chi predica e vive il Vangelo e chi invece il crimine e l’illegalità, arriva nella giornata in cui viene postato su Tik Tok un video che ritrae dei detenuti di Poggioreale mentre se la godono dalla galera. Nell’afoso pomeriggio napoletano in cui Caronte sta dilaniando il Sud, appaiono due reclusi a torso nudo che fumando uno spinello e mangiando un gelato, manifestano una sorta di potere, anche in quella situazione. “È sconcertante vedere cosa succede nel carcere – riprende padre Maurizio -. Non dimentichiamo che Cutolo dalla prigione inviava i suoi ordini, come quello di ammazzare il vicedirettore di Poggioreale, Giuseppe Salvia, morto a 38 anni”, continua il sacerdote ricordando un altro boss, don Raffaele Cutolo, “il professore”, cantato nel brano di Fabrizio De Andrè che conferma nei versi il potere esercitato da Cutolo, Don Raffaè, mentre dialoga, consiglia e assiste un secondino, il brigadiere Cafiero. Una storia, quella della commistione di potere e di impossessamento del titolo di “don”, anche a scapito degli uomini di Chiesa, che la criminalità ha conquistato nel tempo.
“Simm liun…Ci’a mangiamm a galera, o carcr ci’o mangiamm…Da Poggioreale è tutto”. Siamo leoni… La galera ce la mangiamo, il carcere ce lo mangiamo, dicono i due con aria soddisfatta mentre presentano gli altri compagni di cella e intonano un pezzo neomelodico. “Com’ è possibile - ci domandiamo sgomenti - che a Poggioreale i detenuti siano in possesso di telefoni cellulari con cui comunicare con l’esterno all’insaputa dei responsabili, fotografarsi, filmarsi, e postare sui social le loro deliranti imprese? Che succede nel famigerato carcere di Napoli?”, commenta Patriciello turbato da questo episodio, bravata o messaggio destinato a qualcuno.
Bisogna sapere che l’uso dei social è dimostrazione di potere e contiene persino messaggi di comando inviati all’esterno, senza dimenticare le famiglie delle vittime e, contemporaneamente, lo Stato. Una storia, ammette Patriciello, che pensavamo aver archiviato nel passato.