Aiuto, ci si sono ristretti i camici bianchi. Per fare un medico, pronto per lavorare, ci vogliono tra i 10 e i 12 anni. Per farselo scappare all’estero basta il tempo di un’offerta vantaggiosa. E ai neolaureati italiani in Medicina ne arrivano parecchie da Inghilterra, Francia e Germania. Non solo, i numeri diffusi da Anaao Assomed fotografano il baratro su cui camminiamo: nel giro di sette anni, molti meno di quanti ne servano per sfornare un dottore specialista, tra legge Fornero e “quota 100” 52.000 camici bianchi andranno in pensione. Abbiamo chiesto a Walter Ricciardi, ordinario di Igiene alla Cattolica di Roma e presidente della Federazione mondiale delle Associazioni di sanità pubblica, di aiutarci a capire come si può uscire dal buco in cui la carenza organizzativa ci sta infilando, ammesso che non sia già troppo tardi.
Ha dedicato un saggio al sistema sanitario in titolato La battaglia della salute (Laterza), chi dovrà combattere la battaglia per trovare i ricambi?
«La politica, che li deve finanziare, perché non ci sono i soldi o perché non li trova per metterli a disposizione della sanità; chi dovrà organizzare e gestire, perché la frammentazione tra Stato e Regioni crea un caledoscopio di situazioni diverse tra Regioni anche all’interno di ciascuna Regione; chi programma la formazione, perché la carenza è strutturale e non è che il lavoro di un medico si possa delegare ad altri o a un computer; infine i cittadini, che faranno sempre più fatica ad accedere a servizi normali come interventi chirurgici o esami».
Che cosa ha determinato il paradosso per cui esportiamo medici in Paesi avanzati rischiando di doverne importare da Stati che potrebbero non dare garanzie sulla preparazione?
«La cattiva o nulla programmazione. La formazione medica è un lavoro complesso che, per come è strutturato il sistema italiano, va preso in carico dal lavoro congiunto del ministero dell’Istruzione e di quello della Salute. Questa sinergia di governo necessaria, negli ultimi vent’anni, non s’è trovata: quando c’era la volontà di uno, non c’era quella dell’altro. Il risultato è che ogni anno escono dall’università 10.000 laureati in Medicina, mentre le borse messe a concorso dalle scuole di specialità sono meno di 7.000, per le quali ora fanno la fila 16.000 medici rimasti strozzati nell’imbuto».
E intanto si propone di estendere ad altre specialità quanto fatto dal Decreto semplificazioni, che consente di assegnare incarichi agli specializzandi di Medicina generale, prima che abbiano completato la formazione.
«Ma in questo modo si scarica il rischio di una programmazione non gestita sui pazienti e sui giovani medici. Prendiamo l’esempio del chirurgo, la figura più delicata e complessa da formare: si sta dicendo che prendo un laureato in Medicina, mai stato in sala operatoria, lo faccio entrare e gli insegno a fare la specializzazione attraverso la pratica professionale sul paziente? Scherziamo? Non stiamo parlando di imparare a vendere polizze, ma di un’attività che può uccidere. Non è neanche giusto esporre i giovani professionisti alla responsabilità prima del tempo, solo perché si cerca di risolvere un problema complesso con una soluzione semplice assolutamente sbagliata».
Anche per questo le specialità di chirurgia sono poco ambite, troppa responsabilità per pochi onori?
«Sono poco ambite in Italia. Se resta qui, un chirurgo, dopo una selezione in ingresso durissima a Medicina, 6 anni di studio sanguinoso e 4-5 di specializzazione, ha la prospettiva di avere come primo stipendio in una struttura pubblica 2.000-2.500 euro al mese, bene che vada, con la quasi certezza di prendere denunce anche temerarie. Se, invece, subito dopo la laurea, va in Inghilterra, in Francia, in Germania, ancor prima di specializzarsi guadagna il doppio, potendo contare su una pratica professionale che lo fa crescere e lo porta a lavorare in sicurezza, arrivando a guadagnare nel corso della carriera il triplo o il quadruplo del collega che resta in Italia, senza preoccuparsi neanche della lingua perché pur di avere un medico bravo gliela insegnano gratis. Voi al posto loro che fareste?».
Vede una strada rapida per risolvere la carenza di medici in Italia?
«Bisogna trovare i soldi e raddoppiare il numero dei contratti di formazione specialistica, perché le scuole di specialità sarebbero già pronte per assorbirli, a patto che ci siano le risorse».
A proposito di risorse, si sta moltiplicando il caso degli specialisti assunti da cooperative e prestati alle strutture ospedaliere. Come la vede?
«Male. È un artificio contabile con cui Regioni, che non potevano assumere per il blocco imposto dai piani di rientro, hanno tamponato la carenza di medici e infermieri: una soluzione pessima per i pazienti che si devono affidare all’assistenza di figure sempre diverse e per l’organizzazione che non riesce consolidare i protocolli e lo spirito di squadra come si farebbe con personale fidelizzato».