Ala soglia dei settant’anni, Philippe Daverio, critico d’arte, divulgatore televisivo e molte altre cose ancora, afferma, come dice il titolo del suo ultimo libro: Ho finalmente capito l’Italia. E se lo dice lui, che è nato in Francia da un padre italiano che però di nome si chiamava Napoleone, vale davvero la pena ascoltare il suo punto di vista.
Nel titolo del suo libro incuriosisce l’avverbio “finalmente”: cosa ha acceso la lampadina della comprensione sull’Italia?
L’età ormai avanzata unita al perenne disordine in cui viviamo mi hanno portato a guardare con più benevolenza al Paese in cui mi ritrovo. Ho capito che siamo completamente diversi dagli altri Paesi europei. La cultura barbarica in base alla quale chi comanda è il re, da noi non ha mai attecchito. Siamo rimasti un popolo di cittadini e di contadini: non abbiamo mai importato l’idea di Stato.
Questa frammentarietà è però alla base dell’eccezionale varietà del nostro patrimonio artistico...
Certo, prendiamo Palazzo della Signoria a Firenze, così austero e imponente: non ha niente a che vedere con Palazzo Ducale a Venezia, che invece è concepito per far entrare la gente e farla chiacchierare.
Consideriamo ancora altri tre monumenti: la cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze, il ponte di Rialto a Venezia e il Tempio della Concordia ad Agrigento. A quale si sente più legato?
Forse a Santa Maria del Fiore, perché per me l’Italia è prima di tutto la patria della cristianità. Ed è costituita da un tessuto sociale che si sviluppa, in modo spesso rissoso, attorno alla sua cattedrale, la quale è capace di inglobare tutto e l’opposto di tutto. Adesso vediamo Santa Maria del Fiore in gran parte denudata, perché molte delle sue sculture sono finite nel Museo dell’Opera del Duomo. Ma se immaginiamo com’era durante la sua costruzione, ritroviamo una collettività che si unisce attorno alla sua chiesa. In fondo, le radici dell’articolo 1 della nostra Costituzione, “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, sono proprio lì. Nella Firenze dell’epoca, solo chi faceva parte di una delle arti aveva diritto a entrare nei concistori politici. Firenze è stata la prima a dire che la città non la fanno i nobili, ma chi lavora
Negli ultimi anni c’è stato un boom di visite nei nostri musei e monumenti. A chi va il maggior merito di questo fenomeno?
Prima di tutto ai nostri tre migliori ambasciatori nel mondo: la moda, il design e la cucina. La gente si è incuriosita: “Com’è possibile che un Paese dove la politica è sempre un pasticcio riesce a essere leader assoluto in questi campi? Andiamo a vedere”.
Però ora vediamo sempre più spesso anche italiani in fila per ammirare le nostre bellezze. Come mai?
Perché è migliorato molto il marketing in questo campo: infatti si fa la fila per gli eventi più pubblicizzati, mentre altri magari molto più belli non li vede nessuno. E poi scatta l’effetto emulazione. Uno pensa: “Se tutti i miei amici sono andati a vedere quella mostra o quel monumento, devo andarci anch’io.
Quindi è d’accordo con Giorgio Gaber che, a proposito di questo turismo culturale di massa, cantava: “La fila coi panini davanti ai musei mi fa malinconia”...
Abbastanza. Ma lì gioca molto anche la nostra naturale tendenza alla convivialità: la coda per visitare un monumento si fa volentieri perché diventa l’occasione per scambiare quattro chiacchiere.
Ma lei di fronte a un monumento che ha già visto tante volte riesce ancora a stupirsi della sua bellezza?
Sì, e credo sia questo che distingua le opere d’arte storiche dalla maggior parte delle opere contemporanee, da cui resti molto stupito la prima volta che la vedi, un po’ meno la seconda, mentre la terza ti hanno già annoiato. Invece sono sicuro che se passassi ogni giorno della mia vita con il vaporetto sotto il ponte di Rialto, proverei sempre lo stesso senso di ammirazione.
(Da un articolo pubblicato in origine su Famiglia Cristiana 16 del 22 aprile 2018. Foto in alto: Ansa)