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domenica 16 marzo 2025
 
il dissidente ucciso
 

«La morte di Navalny segna una deriva stalinista ma Putin è più forte che mai»

17/02/2024  L’analista ed esperto don Stefano Caprio: «Il suo destino era segnato. Il sistema di potere non finirà con lo Zar. Non è la sua personalità ad essere forte ma un sistema collettivo. Dovesse morire domani al suo posto ce ne sarebbero duecento uguali, o anche peggio»

La morte di Alexei Navalny inevitabilmente apre a riflessioni e interrogativi che riportano altrettanto inevitabilmente a un’altra storica, indimenticabile dissidente, la giornalista russa Anna Politkovskaja, la cui fine urla ancora vendetta (e non solo sotto il cielo di Mosca). In gioco, democrazia e libertà di pensiero: cosa si è disposti a perdere in nome di questi valori e ideali che oggi non dovrebbero essere più terreno di conquista ma diritti civili universalmente acquisiti, quindi inalienabili, non solo sulla carta? L’oppositore russo a Putin è morto in carcere a 47 anni, dopo anni di persecuzioni in cui non ha mai smesso di opporsi, con grande coraggio e non senza fierezza, all’autocrazia e alla corruzione dilagante nel regime putiniano. L’Ue: “Il regime russo è l’unico responsabile di questa tragica morte”. Per il ministero degli Esteri russo l’Occidente ha già tratto le sue conclusioni. Ne parliamo con don Stefano Caprio, docente di Storia, filosofia, teologia e cultura russa che ha vissuto a lungo a Mosca.

Don Caprio, lei come legge la morte del dissidente russo Navalny? Si sarebbe sentito male durante una passeggiata, a quanto riferito dal dipartimento regionale del servizio penitenziario federale.

«Ora è difficile commentare. Vediamo se sarà possibile fare l’autopsia, se ci sarà un’indagine sull’accaduto per capire se sia stato ucciso o colto da morte naturale improvvisa. In queste ore sta girando un video realizzato ieri in cui Navalny interviene online in uno dei tanti processi nei suoi confronti. Il suo avvocato l’altro ieri lo aveva sentito e stava bene. Questo ci dovrebbe portare a escludere un nuovo avvelenamento, come successo quattro anni fa, i cui segni si sarebbero manifestati prima. Alla morte, comunque, ci era già andato vicino: tornando in Russia sapeva che sarebbe andato incontro a un destino amaro. Ha rischiato la libertà e l’ha persa. Sicuramente immaginava che non sarebbe più uscito di prigione sotto il regime putiniano. A questo punto la morte non stupisce rispetto a questi ultimi anni in cui si è quasi concesso alle persecuzioni con un atteggiamento da martire, che ha effettivamente esaltato la sua figura ben al di là della popolarità raggiunta come animatore del dissenso popolare. Il suo destino era segnato».

Chiunque si mette contro Putin finisce male.

«Si era visto anche l’anno scorso con Evgeny Prigozhin, fondatore del Gruppo Wagner, sulla cui effettiva morte sono rimasti dei dubbi. Di fatto quello di Putin è un regime di tipo staliniano che elimina completamente gli oppositori destinandoli al lager, o meglio facendoli quasi perdere nel lager, basti pensare a Navalny stesso, che per un mese non si sapeva che fine avesse fatto, qualcuno addirittura pensava fosse morto, invece era stato trasferito all’estremo Nord».

Cosa significa questa morte dal punto di vista umano e politico?

«Navalny era un personaggio popolare, molto amato, e non solo per le sue proteste all’inizio contro la corruzione del regime e poi contro l’oppressione del regime stesso. Il suo messaggio era sotto certi aspetti alquanto populista. Navalny si era staccato dai liberali e aveva iniziato le sue contestazioni di piazza. Dal 2012 era forte in lui il sentimento populista, simile a quello conosciuto in Italia con il Movimento Cinque Stelle o in Ucraina con Zelensky, contro la corruzione, che è anche un’eredità del regime sovietico. Lui era un personaggio particolare: le sue idee non avevano grandissimi contenuti ideologici, ma la sua figura era estremamente efficace, aveva spirito dell’umorismo, si mostrava superiore a qualsiasi forma di attacco nei suoi confronti. Con lui non è solo un’idea ma un’anima della Russia che viene a mancare. Ci sono anche altri personaggi anti-Putin, come Kara-Murza, Ilya Yashin, diversi politici, giornalisti, persone di grande valore che dal punto di vista politico, in una ipotesi di grande cambiamento, sarebbero probabilmente più credibili di Navalny, però Navalny era un fenomeno che andava al di là della politica, che sapeva “svegliare” la presa di coscienza nei giovani».

Dopo di lui il suo movimento di protesta avrà un altro leader?

«No, perché era molto legato alla sua persona. Più in generale, fra le opposizioni di ogni genere a Putin ci sono personalità di grande valore nei lager, in prigione e all’estero che però, come accade spesso in Russia, non riescono a unirsi, ad andare d’accordo tra di loro. Credo che una di queste personalità avrebbe molto da dire e potrebbe riprendere la memoria di Navalny nel momento, peraltro molto improbabile, in cui dovesse esserci un cambio di regime, penso a Khodorkovsky o Kasparov, che stanno all’estero, o a Kara-Murza o Yashin, confinati nel lager. Il movimento di Navalny anche all’estero non si unisce alle altre opposizioni proprio perché è populista, anti ideologico. Navalny dal lager sapeva dire cose che toccavano nervi scoperti».

Quali le conseguenze di questa morte sulla guerra tra Russia e Ucraina in corso?

«La guerra è in una fase di stallo che i russi vogliono interpretare come momento di proclamazione della loro superiorità. Siamo nell’anno delle elezioni di Putin e lui deve brillare come l’apostolo della vittoria. I russi non hanno più grande interesse alle conquiste in Ucraina, semmai ne hanno di più ad alimentare conflitti in varie parti del mondo, compresa l’Europa orientale. Da vari segnali dell’Intelligence, si pensa che stiano preparando qualcosa di simile anche in Moldavia, paese più piccolo, confinante con l’Ucraina, che però ha tanti punti deboli, nevralgici. Ai russi interessa il conflitto tra israeliani e palestinesi, sono molto attivi in alcune zone dell’Africa, hanno molti riferimenti in America Latina. E non dimentichiamoci, sullo sfondo, il pericolo del conflitto della Cina con Taiwan. Alla Russia interessa una guerra permanente e universale».

Questa vicenda ricorda la morte di Anna Politkovskaja.

«La Politkovskaja era andata in Cecenia per documentarne la corruzione, che era collegata alla corruzione del Cremlino. Questo era un tema analogo a quello di Navalny, e dell’amico di Navalny, Boris Nemtsov, ucciso nel centro di Mosca, a pochi passi dal Cremlino. Sono casi collegati. Con la Politkovskaja eravamo in una situazione in cui Putin sembrava ancora accettabile per la comunità internazionale. Con Nemtsov, invece, cominciava a diventare evidente un aspetto pericoloso e montante da parte della Cecenia, dei guerriglieri e dell’apparato più radicale. Con l’ultimo caso la situazione è dilagata ed è in mano ai padroni della guerra».

Il regime di Putin ha inesorabilmente virato verso una deriva autoritaria?

«Sicuramente. Un precedente analogo è Stalin. Purtroppo non c’è la possibilità di tornare indietro».

Il regime finirà solo con la morte di Putin o ha ragione Vera Politkovskaja, figlia della giornalista uccisa nel 2006, quando dice che Putin non cadrà, che il suo sistema di potere è ancora solido, che la sua ossessione per l’Occidente che vuole distruggere la Russia è un’idea che deriva dall’Urss e resta molto popolare?

«Non finirà con lui. Non è la personalità di Putin ad essere forte ma un sistema collettivo. Putin è un personaggio mediocre e anonimo, ed è lì proprio per questo, per impersonare un’immagine collettiva. Dovesse morire domani al suo posto ce ne sarebbero duecento uguali, o anche peggio. La Russia dopo brevi periodi di apertura, come negli anni ’90, si congela in una lunga stagnazione. Putin è al potere da un quarto di secolo, c‘è una sorta di divinizzazione. Ormai non contano più i suoi mandati, ma una prospettiva apocalittica. Il regime non sta mostrando segni di cedimento, anzi si alimenta dell’ostilità del mondo occidentale e cerca di appoggiarsi sulla Cina, sul mondo orientale. Il regime entrerebbe in crisi semmai la Russia dovesse subire gravi sconfitte militari, che sono improbabili, o attraversare fasi di crisi economica».

Bisogna chiamare le cose con il loro nome, contro qualsiasi divieto: è questa la lezione spiegata ai giovani che hanno davanti un futuro ancora da scrivere? Se sì, qual è il prezzo?

«La situazione è complicata perché oggi c’è un’enorme guerra d’informazione con strumenti che prima non c’erano. Non basta fare un’indagine o un servizio: bisogna saper contrastare anche la guerra ibrida che la Russia sta portando avanti proprio quest’anno in cui sono le elezioni in tutto il mondo per condizionare l’opinione pubblica. Bisogna non solo trovare persone come Navalny e la Politkovskaja, ma anche reti di solidarietà più grandi. L’Europa dovrebbe riuscire a creare più ancora che un’unione politica o economica o militare un’unione volta a contrastare la falsità dell’ideologia della propaganda. I ragazzi devono sentirsi liberi dai bombardamenti di notizie che gli arrivano in mille modi e imparare a guardare personaggi con la schiena dritta per immaginare un mondo più libero. In fondo, Navalny nel suo modo non convenzionale è stato anche testimone di uno spirito religioso: si sentiva cristiano ma era aperto alle altre religioni, non ha mai fatto un uso politico della religione ma ha vissuto nel lager leggendo la Bibbia. Bisogna tornare a cercare valori più grandi, più veri».

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