Dopo il primo morto di ebola in America e il caso di infezione in Spagna, si rischia il panico. Ma a cercare di calmare gli animi è il dottor Andrea Angheben, medico del Centro per le malattie tropicali dell'ospedale di Negrar (Verona), centro di riferimento regionale per il virus ebola e uno dei più importanti in Italia in quanto a casistica.
«Direi che non bisogna proprio farsi prendere dalla paura, però bisogna lavorare bene, coordinati e avere le risorse per farlo. Il caso spagnolo, come è stato accertato, è stato dovuto a un errore umano. L'infermiera ha dichiarato di essersi toccata il viso con i guanti. Un errore quindi, non un accadimento oscuro».
– Eppure è ormai chiaro che la malattia è uscita dai confini africani.
«Per quanto ci riguarda, i rischi sono di due tipi. Quando recuperiamo i nostri medici e operatori sanitari, che hanno lavorato nei Paesi africani più colpiti, si tratta di saper gestire la situazione, applicando i protocolli. Ma, ovviamente, siamo preparati, sapendo la provenienza. La questione è più complicata invece per quanto attiene quelle persone che arrivano da noi, in clandestinità, e che non hanno per ovvi motivi, interesse a farsi identificare. Fermo restando che il rischio resta basso visto, che l'incubazione va dai dieci giorni alle due settimane: chi arriva qui attraversando il deserto e il Mediterraneo di giorni di viaggio ne ha fatti molti di più, perciò non può rappresentare una minaccia virale acuta trasmissibile. Perciò, il problema riguarda sostanzialmente chi arriva con l'aereo. Tuttavia, in Italia il rischio è meno elevato che altrove, perché non abbiamo voli diretti con Sierra Leone, Liberia e Guinea, i Paesi africani maggiormente colpiti. Mentre altri Paesi europei hanno voli diretti e lì la possibilità che arrivino persone con il virus in incubazione è reale».
L'ospedale di Negrar, vicino a Verona, specializzato in malattie tropicali e punto di riferimento regionale per ebola. In copertina, il dottor Andrea Angheben.
– Lei prima parlava di coordinamento migliore. Ci state lavorando?
«Sì, finalmente, ci siamo arrivati, anche se con qualche ritardo. Proprio ieri pomeriggio c'è stata una riunione a Roma, all'istituto Spallanzani, che è la struttura di riferimento nazionale e internazionale per il virus ebola. La discussione verteva sui protocolli, perché alcune indicazioni vanno aggiustate. Le maglie per poter identificare un caso, devono essere strette, perché bisogna poterlo fare in tempi rapidi, ma serve anche un po' di logica. Perché in Spagna sono arrivati tardi a isolare il caso dell'infermiera? Perché si sono attenuti a un protocollo che dice che la temperatura corporea dev'essere almeno di 38,6 gradi centigradi. In Italia, per esempio, lo avremmo isolato anche in presenza di una temperatura inferiore. I nostri medici usano una maggiore elasticità. L'altra questione sul tappeto è se tutto debba essere centralizzato e quindi il caso sospetto – sia considerato a “basso o ad alto sospetto” – debba essere sempre verificato dallo stesso istituto Spallanzani, oppure se anche altri centri possano essere deputati a mettere in pratica le procedure sanitarie adeguate per l'identificazione del virus. Noi a Negrar siamo preparati, lavoriamo da sempre nel campo delle malattie infettive, il problema si pone con i piccoli ospedali non attrezzati».
– Par di capire che una delle difficoltà è distinguere l'ebola dalla malaria, in quanto i sintomi sono molto simili.
«Esatto. Febbre, sudorazione, nausea, diarrea… Siccome, l'Organizzazione mondiale della sanità non ha interdetto i viaggi turistici nei Paesi africani colpiti, anche se ovviamente ha altamente sconsigliato di andare là, raccomanda a chi vi si reca – personale sanitario in primis – di fare la profilassi antimalarica. In questo modo, la malaria si può escludere e cominciare a ragionare su ebola. Teniamo presente che uno dei Paesi africani con cui l'Italia ha maggiori rapporti è la Nigeria. In un anno ci arrivano almeno 600 casi di nigeriani con la malaria. Se io avessi dovuto, per ciascuno di questi, bardarmi, per applicare il protocollo nella sua rigidità, sarebbe stata una mole di lavoro impossibile da gestire. Ed ecco perché bisogna valutare cum grano salis».
– Con il vaccino a che punto siamo?
«Ce ne sono due in produzione. Sono stati testati positivamente sugli animali, ora si stanno testando sull'uomo, per avere la certezza dell'efficienza e della sicurezza. In ogni caso, non sarà diffuso prima del 2015, che comunque è un tempo breve. La paura ha fatto sì che ci fosse una certa rapidità nella produzione del vaccino».
– È ipotizzabile da noi un'epidemia di dimensioni simili a quella africana?
«No di certo, perché ebola è una malattia della povertà, di mezzi e culturale. In Africa si va diffondendo così rapidamente, perché ci sono sistemi sanitari fragili, personale medico-sanitario non formato. In Nigeria, per esempio, il virus non si è diffuso, perché il sistema sanitario è migliore che in altri Paesi. Da noi può esserci qualche caso, com’è successo in Spagna, o negli Stati Uniti, si interviene, si isola, si cura, e il focolaio viene spento».