Dopo averla ingannata in più occasioni, ha ceduto alla morte. Non a bordo di una Formula Uno, non ai comandi di uno degli aerei della sua compagnia, lui che ha sempre amato volare, e nemmeno dietro alla scrivania da manager Mercedes nella sua ultima parte di vita. «Se ne è andato serenamente», come hanno annunciato i suoi cari, nel letto di un clinica svizzera, sopraffatto da un problema renale. Solo otto mesi prima aveva subito un trapianto di polmone.
Ma Niki Lauda ha combattuto col demone della morte anche in altre occasioni. La più clamorosa è impressa nella mente di ogni appassionato sportivo che abbia almeno mezzo secolo di ricordi. 1° agosto 1976: sul circuito tedesco del Nürburgring - un tracciato di 22,8 km che oggi non rispetterebbe i minimi criteri di sicurezza e che infatti da allora non venne più utilizzato in Formula Uno - la sua Ferrari 312 T2 va a sbattere, prende fuoco e viene presa in pieno da due monoposto che seguivano. Il casco vola via, le fiamme avvolgono il corpo di Lauda privo di sensi, i tre piloti più vicini lo soccorrono, sopraggiunge Arturo Merzario che si ferma e aiuta i colleghi a estrarre il ferrarista dal catorcio in fiamme.
È morto? No. Carriera finita? Nemmeno. Mondiale perso? Allora non conoscete Lauda. Il suo volto resterà per sempre sfigurato, ma la voglia di correre – e di vincere – è intatta. Salta due Gran Premi e a Monza è di nuovo in pista. Incredibile. Gli mancano pochi punti per vincere Il Mondiale, e potrebbe anche farcela se non fosse per la pioggia torrenziale caduta sul circuito giapponese del Fuji, ultima prova dell’anno: Lauda si ferma al secondo giro, il titolo andrà al suo “gemello diverso” James Hunt.
Sarebbe stato ridicolo accusare di codardia Lauda per la scelta del ritiro: la morte va affrontata, non sfidata, è ciò che distingue l’uomo coraggioso dal folle. Eppure qualcuno, a cuor leggero, lo fece. È invece più facile immaginare che la tenace e fredda personalità dell’austriaco lo abbiano portato a immaginarsi un futuro in cui avrebbe avuto altre occasioni per vincere il Mondiale. E la storia gli diede ragione. L’anno dopo si riprende il titolo di campione del mondo. Freddo, calcolatore, un computer. Ma con un amore per la vita che lo guida a ogni curva e che gli dice quando smettere e quando osare.
Sei anni dopo il Nürburgring e dopo essersi ritirato dalle competizioni tra il 1979 e il 1981, nel 1982 la migliore scuderia del momento, la McLaren, gli offre il posto da pilota. Accetta, torna a bordo e due anni dopo conquista il suo terzo titolo mondiale, con mezzo punto di vantaggio sul compagno di scuderia Alain Prost. Da qui in poi è leggenda.