L'autografo del Papa durante l'incontro in Vaticano con i giovani il 6 ottobre (foto Ansa)
«La Chiesa si sta abituando a fare a meno dei giovani. Non ne sente più la mancanza, questo è il dramma. Come dire, ci siamo noi adulti e bastiamo. E facciamo sempre le stesse cose anche quando, come nella pastorale, non portano risultati. Il problema del giovanilismo ecclesiastico è quello di non riconoscere che c’è bisogno di nuove prassi e adattamenti». In Vaticano è in corso il Sinodo sui giovani. Ad agosto, quasi settantamila ragazzi italiani hanno incontrato a Roma papa Francesco e pregato insieme con lui. L’eco è ancora forte. Sono arrivati da ogni parte d’Italia. A piedi, in bicicletta, persino in canoa lungo il Tevere. «Un segno di speranza, certo, ma non illudiamoci troppo», dice senza molti giri di parole don Armando Matteo perché, è la sua diagnosi, quella dei giovani e dei ragazzi (insieme alle donne adulte e ai laici responsabili, ma questo è un altro discorso) è un pezzo di Chiesa che manca. Matteo è docente di Teologia fondamentale alla Pontificia Università Urbaniana di Roma. Il suo testo più conosciuto è La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, uscito nel 2010 e aggiornato con una nuova edizione nel 2017. La Chiesa che manca, un approfondimento sulla pastorale giovanile a partire dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium di papa Francesco, è il titolo di un altro suo saggio uscito a marzo per la San Paolo. Da poco, è in libreria un altro pamphlet provocatorio: Tutti giovani, nessun giovane (Piemme).
Quale migliore interlocutore di don Armando, dunque, per scrutare il mondo dei giovani cattolici italiani? «Facciamo fatica a prendere atto che nella Chiesa i giovani sono i grandi assenti», dice, «anche l’Instrumentum laboris (il documento di base su cui si poggia la discussione al Sinodo in corso, ndr) liquida la questione in maniera piuttosto veloce e questo mi lascia alquanto perplesso. C’è grande fatica a riconoscere la nostra fatica con le nuove generazioni».
I giovani italiani che hanno incontrato il Papa a Roma chi sono?
«Sono essenzialmente legati alle parrocchie, che nel tessuto sociale italiano conservano ancora una certa influenza e capacità di mobilitazione, come pure ai movimenti e a varie esperienze comunitarie. Sono certamente un motivo di speranza però attenzione».
A cosa?
«La mia impressione è che quella di pregare insieme per il Sinodo e incontrare il Papa sia un’esperienza centripeta. Speriamo, invece, che provochi una mossa centrifuga: non tanto i giovani che vanno verso il Papa, quanto che la Chiesa che si muove con più generosità e meno pregiudizi e paure verso le nuove generazioni».
Perché sostiene che la prima cosa da fare è non abusare del termine “giovane”?
«Perché è diventata un’appropriazione indebita. Prima si occupa il posto che spetterebbe ai giovani e poi gli si azzera il destino. Oggi viviamo un certo ecumenismo della giovinezza e si fa fatica a riconoscere che questa parola, per tanti motivi, ha una titolarità che non è cedibile».
Quando, esattamente, si è giovani?
«Secondo le indicazioni europee tra i 15 e 34 anni, per il Sinodo tra i 16 e 29 anni. Essere giovani è un’energia che non è rinnovabile nel resto della vita né è surrogabile dall’esperienza. Sia l’etimologia greca di questa parola (novità) che quella latina (forza) suggeriscono l’idea che i giovani sono una forza nuova che deve rinnovare il tessuto della società».
Sempre più giovanilista, peraltro.
«Oggi sono tutti giovani e a tutte le età. Le ricerche dicono gli italiani riconoscono mediamente di non essere più giovani a 59 anni e accettano di definirsi vecchi oltre gli 80. Il giovanilismo è un’ideologia fomentata da vari settori della società anche perché fa girare tanti soldi. Non a caso, uno dei pochi settori economici che negli ultimi anni non conosce crisi è l’industria cosmetica e del fitness».
Quali sono le conseguenze?
«Che non siamo più in grado di riconoscere la specificità del mondo giovanile sia dal punto di vista delle risorse che da quello delle pretese. E questo si vede da vari fenomeni».
Quali?
«In Italia, i neet (i giovani tra i 15 e 29 anni che non studiano e non lavorano, ndr) sono oltre 2 milioni. La disoccupazione giovanile è oltre il 30 per cento. I giovani dicono: “siamo qui e siamo l’energia di cui il Paese ha bisogno” e gli adulti gli rispondono: “di voi non abbiamo bisogno perché noi a 50 e a 60 anni siamo ancora giovani”. Un disastro».
Anche la Chiesa soffre di giovanilismo?
«Sì, soprattutto nel linguaggio pastorale che conia termini grotteschi come “adulti giovani”, “adultissimi”, “giovani adulti”. Se uno diventa vescovo a 50 anni tutti rimangono sorpresi ma secondo i sociologi si diventa adulti a 35 anni. Poi, c’è un altro tipo di giovanilismo nella Chiesa, più nascosto e pericoloso».
Di cosa si tratta?
«Ci stiamo abituando lentamente a fare a meno dei giovani. Non ne sentiamo più la mancanza, questo è il dramma. Come dire, ci siamo noi e bastiamo. E facciamo sempre le stesse cose anche quando, come nella pastorale, non portano risultati. Il grosso problema del giovanilismo ecclesiastico è quello di non riconoscere che c’è bisogno di nuove prassi e adattamenti. Papa Francesco in Evangelii gaudium dice chiaramente che la nostra non è semplicemente un’epoca di cambiamenti ma un cambiamento d’epoca».
Il teologo e scrittore don Armando Matteo
Ma perché alla Chiesa mancano i giovani?
«Devo citare ancora l’Evangelii gaudium, capitolo 70. Nessuno meglio di Bergoglio ha fatto la radiografia della situazione».
Spieghi.
«Nel mondo cattolico, riconosce il Papa, c’è stata una rottura nella trasmissione della fede cristiana. Si tratta di prendere atto che per i giovani lo scarso o nullo interesse del Vangelo nella definizione della propria identità di adulti è dovuta all’eclissi del cristianesimo domestico».
Quindi la colpa è dei genitori?
«Con la generazione dei baby boomers (i nati tra il 1946 e il ’64, ndr), e la generazione X (i nati dal ‘64 al 1980, ndr) c’è stata una rivoluzione copernicana. Al centro degli interessi di queste due generazioni non c’è più l’idea della responsabilità e della generatività ma quella del restare giovani come unica promessa di felicità e di autorealizzazione».
Che significa?
«Il primato del culto della propria fisicità e sensualità e la coltivazione di una libertà irresponsabile con la fede che è lentamente scivolata ai margini».
È cambiato il modo di educare?
«Nelle famiglie si è assistito a una presentazione del Cristianesimo molto esangue e formale, dicevano ai figli di andare a messa ma loro per primi non ci andavano, hanno anche insistito con l’ora di religione ma senza convinzione. Il lavoro fatto dalle parrocchie e dai catechisti non ha avuto più una sponda nelle famiglie. E i ragazzi, ad un certo punto, non sono più riusciti ad armonizzare il messaggio ricevuto in parrocchia con quello ricevuto in famiglia».
È questo il motivo per cui i ragazzi se ne vanno?
«Sì, perché fanno fatica a rispondere a questa domanda: cosa significa essere cristiani quando non si è più bambini? A questo interrogativo non può rispondere solo la parrocchia ma devono farlo anche le mamme e i papà. Anche perché la risposta della parrocchia può essere di due tipi: o indicando una testimonianza forte, il sacerdote, o con la lezioncina del catechismo. L’iniziazione cristiana serve ad aiutare i bambini a passare da un’adesione infantile al Cristianesimo a una visione più adulta, scoprendo quanto la parola di Gesù doni luce, calore e senso alla propria vita. Per diventare adulti credenti è necessario vedere altri adulti credenti. Le nostre parrocchie sono frequentate dai nonni, anche l’età media dei catechisti e degli operatori pastorali è alta».
Francesco parla ai vescovi riuniti per il Sinodo dei giovani (foto Ansa)
La prossima Giornata mondiale della gioventù sarà a gennaio a Panama. Quello delle Gmg è un modello che funziona ancora?
«Le Gmg hanno fatto storia ma non hanno fatto scuola».
In che senso?
«Dovevano essere una forza propulsiva che dal centro, romano e papale, irradiasse una forza rivoluzionaria e contagiosa nelle chiese locali. Non è andata proprio così e le diocesi sono diventate, per certi versi, degli uffici pellegrinaggi intenti a organizzare la prossima Gmg. Questi eventi non devono essere fine a se stessi e devono rompere una certa autoreferenzialità altrimenti, se così non è, diventano un alibi per le pastorali giovanili e vengono meno all’intuizione profetica di Giovanni Paolo II».
Un alibi?
«Penso che il Sinodo dei giovani sia stato indetto per rompere questo meccanismo e confutare l’idea, sbagliata, che del mondo giovanile debba occuparsi l’ufficio di pastorale giovanile. No, deve occuparsi l’intera comunità. Questo Sinodo, forse, è il più importante di tutti gli altri perché offre alla Chiesa la possibilità di guardarsi e porsi una domanda semplice: che futuro abbiamo? Vogliamo diventare un club di vecchi affezionati che si ritrovano per la Messa e il rosario o una comunità dei discepoli del Signore che spende ogni energia per dire quanto sia arricchente vivere il vangelo nella propria vita e viverlo in una comunità di fratelli e sorelle?».
Tre cose da fare per “riattrarre” i giovani?
«Primo: riconoscere con franchezza che abbiamo un problema con le nuove generazioni. Secondo: ammettere che il problema sono gli adulti e i giovani sono la risorsa. Terzo: la Chiesa deve recuperare l’elemento fondamentale della sua fede che è la quello della gioia e della festa. Adesso prevale la dimensione del dolore, della cupezza, della morte. Solo una fede gioiosa e legata alla festa può interessare tutti, quindi anche i giovani».