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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Noi, italiani per vocazione

22/05/2013  Sono gli scrittori di origine straniera che ora vivono in Italia e usano per le loro opere la nostra lingua, adottandola come propria e rinnovandola.

L’utilizzo della lingua italiana ha avuto tante tappe storiche. Fin dal Medio Evo, ci sono stati scrittori, da Montaigne a Byron, che si sono cimentati con l’italiano da outsiders, magari componendo un sonetto petrarchesco per esprimere l’amore, o comunque come marca di letterarietà, come “lingua straniera” di una cultura alta. C’è poi chi, come Pap Khouma, emigrato in Italia dal Senegal, l’ha imparato da venditore ambulante e ora dice: “C’è un’anomalia nel linguaggio di cui non ci rendiamo conto. Noi diciamo: ‘La mia lingua; la nostra lingua’, come se potesse essere proprietà inalienabile di qualcuno. Ma la lingua è un’entità mobile, che muta, che cammina e vola. La lingua è un bene che può diventare di tutti”.

Pap, che ora è scrittore e direttore della rivista online El Ghibli, lo ha detto al convegno “Scritture di nuovi italiani”, organizzato ad aprile dal Dipartimento di Studi letterari, filologici e linguistici dell’Università Statale di Milano. Spiega la Professoressa Gabriella Cartago: “La lingua italiana, come ogni altra lingua, è un’entità in costante mutamento, che si risolve in una mescolanza tra la lingua di partenza e quella di arrivo. Quando si emigra in un nuovo Paese, c’è il momento della privazione della lingua materna; segue il momento dello straniamento, in cui non si usa nessuna delle due lingue; e, per lungo tempo, c’è la diffidenza nei confronti della nuova lingua che ancora non si sa usare (e la diffidenza di chi ti ascolta parlare una lingua appena imparata)”.

Ma la migrazione rimette in discussione tutte le comunità coinvolte, compresi “gli indigeni”.
Succede che alcuni immigrati o i loro figli nati qui, che l’immigrazione l’hanno solo sentita raccontare, diventino “scrittori italiani”. La loro è spesso una lingua nuova, che si avvale di prestiti dalle lingue d’origine e li innesta in quella italiana; alle volte, una lingua curiosa che ricorre anche a espressioni gergali, dialettismi, forme insolite e colorate che appartengono alla lingua non-ufficiale italiana. Diventa una lingua attraverso la quale stare dentro la propria storia, dentro la propria identità. Non più un espediente comunicativo, o una scelta letteraria, ma una condizione di esistenza.

Questo processo non è certo esclusivo dell’italiano. Milton Fernandez, attore, scrittore e regista teatrale, nato in Uruguay e ora Direttore artistico del Festival della Letteratura di Milano, propone il paragone con l’Argentina, dove la metà degli abitanti discende da italiani: “Quando chiesero a Borges chi fosse il miglior scrittore latinoamericano, indicò Siria Poletti, una scrittrice argentina emigrata a 21 anni dal Canton Ticino. Giunta in Argentina, per poter pubblicare a Buenos Aires seguendo la sua vocazione di scrittrice, aveva imparato perfettamente il castigliano. Ma anche negli Stati Uniti, del resto, nessuno si chiederebbe se Bukowski sia straniero. Forse invece l’Italia è un po’ indietro”.

Spesso, nelle librerie, i libri in italiano dei “nuovi italiani” si trovano negli scaffali di letteratura straniera.
Scherzi di un cognome “insolito”… Certamente possono aiutare a capire la realtà i testi dei relatori intervenuti al convegno della Statale di Milano, dalle poesie di Cheick Tidiane Gaye, che ha appena pubblicato Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera (Jaca Book), a quelle di Viorel Bodis, arrivato dalla Romania nel 1995, dai libri di Pap Khouma alle canzoni di Luz Ampario Osorio, figlia di quattro lingue diverse. Le loro parole raccontano come la casa ormai è, anche se a volte a fatica, il luogo dove si sta, dove si abita la propria storia. Italiani per vocazione e La mia casa è dove sono sono, non a caso, i titoli di due lavori di Igiaba Scego, premio Mondello 2011, nata a Roma nel 1974 e figlia di genitori somali scappati dal colpo di stato di Siad Barre.

 
 
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