Nato in un rione periferico di Buenos Aires e cresciuto in una famiglia umile, padre José María “Pepe” Di Paola è “famoso” per il suo impegno con i poveri delle villas miserias, le grandi bidonville che sorgono alla periferia della capitale argentina. Cresciuto come seminarista seguendo le novità del concilio Vaticano II, ha poi preso esempio da altri due noti preti argentini: don Raúl Perrupato, sacerdote dalla grande generosità e cura pastorale, e il cardinale Jorge Mario Bergoglio, ovvero papa Francesco. Siamo andati a conoscerlo.
Padre Pepe, partiamo dall’inizio. Come è stata la sua infanzia?
«Sono nato nel 1962, i miei genitori provenivano da un contesto umile ma lavorando con dedizione hanno formato una famiglia. Sono il primo di tre figli, nato e battezzato a Burzaco, nella provincia di Buenos Aires. L’infanzia l’ho passata nel rione di Caballito, nella capitale, dove ci eravamo trasferiti perché i miei genitori volevano essere più vicini al posto di lavoro. Uniti fra loro e affiancati dai nonni, ci hanno sempre mostrato i valori positivi della famiglia, che poi mi hanno formato nella fede».
Quando ha scelto il sacerdozio?
«Ho studiato al collegio Dámaso Centeno. Come ogni adolescente mi chiedevo cosa avrei fatto della mia vita e pensavo sempre a come aiutare gli altri: ad esempio mi chiedevo se fosse meglio diventare avvocato per difendere i diritti dei deboli, oppure se studiare per fare il maestro. Sulla mia vocazione sacerdotale ebbe molto peso il buon esempio di don Raúl Perrupato, che fu mio insegnante. Ancora oggi che ha quasi 90 anni continua a programmare campi scuola per i giovani! Così nel 1979 decisi di entrare in seminario e l’anno successivo venni inserito nell’Istituto vocazionale San Giuseppe, sempre a Buenos Aires».
Cosa ricorda del seminario?
«Furono anni belli, aperti, li ricordo con affetto. Avevamo professori di diverso orientamento di pensiero e il seminario era un centro molto rinnovato, portava avanti lo stile del concilio Vaticano II. Alla facoltà di Teologia c’era grande libertà, si discuteva ampiamente, avevamo la possibilità di pensare e di ascoltare preti e religiose che avevano sofferto o erano stati perseguitati dalla dittatura. Avevamo molti contatti con la Teologia della liberazione e con la Teologia del popolo. Don Lucio Gera (fra i fondatori del Movimento di sacerdoti per il Terzo mondo, ndr) è stato un nostro grande formatore: con lui siamo cresciuti come persone e come preti».
E le villas quando hanno iniziato a far parte della sua vita?
«Dopo aver passato alcuni anni nelle “parrocchie comuni” come Santa Rosa de Lima e Santa Lucía, tipiche chiese di quartiere, l’allora arcivescovo di Buenos Aires, Bergoglio, mi inviò a San Pantaleón e, contemporaneamente, mi chiese di prendermi cura di Ciudad Oculta, l’insediamento informale che allora non aveva ancora una parrocchia. Quello fu per me il primo approccio concreto alle villas miserias; siccome alcuni miei compagni di seminario erano già preti nelle periferie, avevo comunque avuto abbastanza contatti anche in precedenza. Così entrai nel gruppo dei preti delle villas e poi, nel 1997, divenni parroco alla Villa 21 di Barracas, dove rimasi fino al 2010».
Come nacque l’équipe dei sacerdoti delle villas miserias e come procede oggi il suo impegno?
«Vide la luce nel 1969 e ancora oggi noi cerchiamo di tenere viva l’eredità di padre Carlos Múgica, padre Rodolfo Ricciardelli, padre Jorge Vernazza e degli altri che fecero parte di quella prima équipe. Abbiamo seguito il loro esempio vivendo stabilmente nelle villas, lavorando con la comunità, ascoltandone bisogni e desideri. Solo in questo modo si entra in contatto con le famiglie e si costruisce la Chiesa. Per un prete delle villas non sarebbe possibile vivere altrove, andando lì solo ogni tanto, come per una missione. Noi operiamo così da 50 anni, incontrandoci poi per riunioni e ritiri: oggi siamo più di 40 sacerdoti nelle varie villas».
Che ruolo ha svolto il cardinale Bergoglio nella sua vita? E cosa le piace oggi della Chiesa di Francesco?
«Bergoglio per me è un padre spirituale. Come vescovo era molto aperto, molto vicino alla gente. Considerava noi curas villeros una priorità: non a caso da 9 che eravamo siamo diventati più di 20 durante il suo episcopato. Credo che lui stesso imparò tanto dal clero impegnato nelle villas: ad esempio il valore della religiosità popolare, il vivere in austerità, il condividere con gli altri, il fare posto al laico, al povero… Quel che è più importante per me della Chiesa di Francesco è che molte delle cose che noi vedevamo nella Chiesa di Buenos Aires oggi appaiono a livello planetario. Il suo modo di pensare non è cambiato, le sue riflessioni sono molto profonde e arriva a persone a cui prima non si era mai arrivati. Ha sfondato con pensieri brevi e densi. Sta dando un contributo molto importante al pensiero e alla vita della Chiesa».
Come si accompagna la crescita delle persone e lo sviluppo delle comunità? Lei cosa sta facendo a La Carcova?
«In ogni comunità è importante valorizzare le qualità di ciascuno e lasciare che le persone possano svilupparle. Lo faccio anche qui, con tutte le difficoltà che questo genera. Unità nella libertà, ecco la grande sfi da. Questa è la via perché qualcosa cresca e poi prosegua senza dipendere da te».
Come state affrontando il dramma del Covid-19?
«Quasi senza parlarci tra di noi, come preti delle villas ci siamo subito adattati alle nuove circostanze. Abbiamo impostato il lavoro pastorale in funzione di quanto stava succedendo, ad esempio trasformando le cappelle in mense e in case. Alcuni sacerdoti hanno rifornito di vestiti i più bisognosi e così via. Poi cerchiamo di mantenere lo spirito della comunità trasmettendo le Messe su Facebook, You Tube e attraverso la radio comunitaria. Invece di chiudere la chiesa, la lasciamo aperta. Un giornalista, venuto a trovarmi in questi mesi, ha visto delle pentole sopra l’altare – stavamo cucinando in una delle cappelle – e, sbalordito, mi ha chiesto: “Cosa dice la gente quando vede le pentole sopra l’altare?”. E io gli ho risposto: “La gente che sta cucinando è la stessa che viene a Messa, non ci sono persone che vengono a Messa e altre che si dedicano ai poveri. Qui c’è unità tra ciò che si prega e ciò che si fa”».