(Foto Reuters: palestinesi che protestano contro il presidente Usa Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu).
Il cosiddetto "piano di pace" approntato da Donald Trump per il Medio Oriente è una porcheria. C’era da aspettarselo, anche perché il lungo percorso di stesura aveva lasciato filtrare parecchie indiscrezioni. Ma è una porcheria più interessante di quel che sembra. Il "piano", infatti, si basa sulla smentita totale, quasi filosofica, dell'assunto che ha ispirato la politica di Benjamin Netahyahu in tutti questi anni, e cioè che la "soluzione a due Stati" (Israele e uno Stato palestinese, l’uno accanto all’altro) fosse non solo impossibile ma da respingere in ogni modo. Il "piano" presentato ieri dice l’esatto contrario: i due Stati sono non solo possibili ma addirittura necessari. Il che implica un’ulteriore considerazione: se uno Stato è necessario, i palestinesi sono un popolo. Insediato su una terra precisa con confini precisi. Difficile peraltro sostenere che i palestinesi siano meno popolo dei kosovari o, per restare in zona, dei giordani. Addio, quindi, ai caposaldi del sionismo più duro e radicale.
Per far digerire il boccone all’Israele di Netanyahu, ovviamente, Trump ha ipotizzato, per i palestinesi, uno Stato che sarebbe un simulacro di Stato. Disarmato, spezzettato, cacciato da Gerusalemme (la cui parte Est è tuttora, secondo il diritto internazionale, territorio occupato), privato delle terre fertili (perché gli insediamenti israeliani illegali diventerebbero parte integrante, quindi legale, di Israele; e perché la valle del Giordano ricadrebbe sotto la sovranità israeliana), confinato in quelle più aride, dipendente in tutto e per tutto dal volere del più forte vicino. Nessun diritto al ritorno per i profughi della diaspora palestinese.
Alla voce avere, per i palestinesi, la promessa di Netanyahu di una moratoria di quattro anni nella costruzione di nuovi insediamenti e la promessa di Trump di 50 miliardi di dollari di investimenti. Ovvero, la resa totale per mettersi nelle mani del Netanyahu o del Trump di turno. Il "piano", quindi, tratta la pace come una colpa, un onere che ricade interamente sulle spalle dei palestinesi. Come se il diritto a esistere di Israele implicasse anche che Israele non abbia mai avuto alcun ruolo o responsabilità nel delinearsi della situazione attuale.
Mentre svelava i propri progetti, alla Casa Bianca, Donald Trump aveva accanto un Benjamin Netanyahu più che soddisfatto, quasi trionfante. E si capisce bene perché. Ma le presenze più interessanti erano tra il pubblico, in particolare nella persona degli ambasciatori di Oman, Emirati Arabi Uniti e Bahrein. Siamo nella galassia dell’islam petrolifero e sunnita che ruota intorno alla politica dell’Arabia Saudita, a sua volta da lungo tempo e saldamente alleata di Israele nella politica anti-Iran e non solo in quella. Una presenza significativa, quella degli ambasciatori. Fa capire che il mondo arabo più ricco ha ormai mollato la causa palestinese al suo destino. Continueranno le donazioni, se non altro per tenere in piedi il sistema di potere di Al Fatah e di Abu Mazen e impedire che Hamas prenda il controllo dell’intera comunità palestinese, come avverrebbe se in Péalestina si votasse, cosa che non accade da tredici anni. Ma il sostegno politico è finito.
Nello stesso tempo gli Usa e Israele continueranno a lavorare per indurre i palestinesi alla resa. Nel marzo del 2018 Trump ha firmato una legge (Taylor Force Act) che tagliava di un terzo gli aiuti americani all’Autorità palestinese finché questa non avesse smesso di pagare un salario alle famiglie dei palestinesi uccisi, feriti o detenuti da Israele, tutti equiparati a terroristi. Nello stesso 2018 la Casa Bianca ha tagliato altri 200 milioni di dollari di aiuti diretti e 300 milioni in finanziamenti alle agenzie Onu che si occupano della Palestina. Al seguito degli Usa sono andati anche l’Australia e i Paesi Bassi. All’inizio del 2019 la Casa Bianca ha bloccato tutte le attività di Usaid (l’agenzia del governo Usa per la cooperazione allo sviluppo) in Cisgiordania e a Gaza e poco dopo ha bloccato altri 60 milioni di dollari di aiuti destinati alla polizia palestinese. La ragione? Una legge del 2018 (Anti-Terrorism Clarification Act) tesa a evitare che i recettori di aiuti americani si rendano responsabili di "atti di guerra". Una condizione che, di nuovo, vale solo per i palestinesi, visto che Israele riceve ingenti aiuti dagli Usa ma, a quanto pare, non compie mai "atti di guerra".
La presentazione di questo piano, insomma, somiglia molto all’uccisione del generale iraniano Qasem Soleimani. E’ un'operazione di propaganda a basso rischio. La vittima è debole e la sua reazione non potrà far molto male. Al contrario, il ricavo in termini di consenso e popolarità è alto. E se qualcuno si domanda perché, si chieda anche: quanti voti per Trump presidente possono spostare le organizzazioni filo-palestinesi negli Usa? Qualche decina? E quanti voti, e supporti politici e finanziari, possono invece spostare le organizzazioni pro Israele?