La Chiesa è un polmone che fa respirare un Paese attanagliato da guerra e corruzione. Papa Francesco incoraggia i vescovi del Congo, lasciando Kinshasa verso il Sud Sudan. Il suo ultimo discorso è per loro, «pastori, non affaristi» che devono stare «davanti al gregge per segnalare la strada, in mezzo al gregge per sentirne l’odore e non perderlo e dietro per non lasciare indietro nessuno e anche per vedere dove va il gregge». Molti interventi a braccio per chiedere loro di «alzare la voce» contro la corruzione e la guerra, di coltivare la vicinanza al popolo e la speranza. «Vi sono grato», dice Francesco, «per come annunciate con coraggio la consolazione del Signore, camminando in mezzo al popolo, condividendone le fatiche e le speranze». In questo Paese che «con la sua grande foresta rappresenta il “cuore verde” dell’Africa, un polmone per il mondo intero», il Pontefice chiede di «essere profeti di speranza per il popolo» respirando, come Chiesa «l’aria pura del Vangelo» scacciando quella «inquinata della mondanità». Il Papa immagina la Chiesa africana e quella congolese come «una Chiesa giovane, dinamica, gioiosa, animata dall’anelito missionario, dall’annuncio che Dio ci ama e che Gesù è il Signore. La vostra è una Chiesa presente nella storia concreta di questo popolo, radicata in modo capillare nella realtà, protagonista di carità; una comunità capace di attrarre e contagiare con il suo entusiasmo e perciò, proprio come le vostre foreste, con tanto “ossigeno”». E li ringrazia «perché siete un polmone che dà respiro alla Chiesa universale!».
Pensa anche alla fatica di una Chiesa che «soffre per il suo popolo» e che, «come Gesù, vuole anche asciugare le lacrime del popolo, impegnandosi a prendere su di sé le ferite materiali e spirituali della gente, e facendo scorrere su di essa l’acqua viva e risanante del costato di Cristo». Denuncia la tentazione di perdere la speranza in un Paese che vede le «acque torbide della corruzione e dell’ingiustizia che inquinano la società» e che lasciano tanti nella povertà. E chiede ai vescovi di essere vicini al popolo fuggendo la mondanità e il carrierismo. I poveri non devono vedere uomini di Chiesa che vivono nell’agio mentre la popolazione soffre, ed essere vescovi non è una scalata al potere, ma un servizio. «Siamo pastori e servi, non affaristi», ricorda Francesco..
Francesco si chiede come esercitare questo ministero in mezzo a tante ingiustizie e ricorda la storia di Geremia, «un profeta chiamato a vivere la sua missione in un momento drammatico della storia di Israele, tra ingiustizie, abomini e sofferenze. Egli ha speso la vita per annunciare che Dio non abbandona mai il suo popolo e porta avanti progetti di pace anche nelle situazioni che sembrano perdute e irrecuperabili». Per non perdere la speranza bisogna stare vicini a Dio, radicarsi nella preghiera. Vicinanza a Dio e profezia per il popolo sono i due caratteri principali con cui esercitare il ministero episcopale. Per noi chiamati a essere Pastori del popolo di Dio è fondamentale «strutturarci nella preghiera, stando ore davanti a Lui». Che non succeda, ammonisce il Papa «di pensarci autosufficienti, tanto meno di vedere nell’episcopato la possibilità di scalare posizioni sociali e di esercitare il potere. E soprattutto: che non entri lo spirito della mondanità, che ci fa interpretare il ministero secondo i criteri dei propri utili tornaconti, che rende freddi e distaccati nell’amministrare quanto ci è affidato, che porta a servirci del ruolo anziché servire gli altri, e a non curare più la relazione indispensabile, quella umile e quotidiana della preghiera». E solo così, stando vicini a Dio si può essere anche vicini al popolo «perché le persone scoprano la loro dignità di figli di Dio e imparino a camminare a testa alta, senza mai abbassare il capo dinanzi alle umiliazioni e alle oppressioni». La vicinanza a Dio, sottolinea il Papa «rende profeti per il popolo, capaci di seminare la Parola che salva nella storia ferita della propria terra».
E questo annuncio, il Pontefice riprende le parole che Gesù dice a Geremia - «Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca. Vedi, oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» - si basa su questi verbi forti. «Dapprima sradicare e demolire, per poter infine edificare e piantare. Si tratta di collaborare a una storia nuova che Dio desidera costruire in mezzo a un mondo di perversione e di ingiustizia. Anche voi, allora, siete chiamati a continuare a far sentire la vostra voce profetica, perché le coscienze si sentano interpellate e ciascuno possa diventare protagonista e responsabile di un futuro diverso. Bisogna, dunque, sradicare le piante velenose dell’odio e dell’egoismo, del rancore e della violenza; demolire gli altari consacrati al denaro e alla corruzione; edificare una convivenza fondata sulla giustizia, sulla verità e sulla pace; e, infine, piantare semi di rinascita, perché il Congo di domani sia davvero quello che il Signore sogna: una terra benedetta e felice, mai più violentata, oppressa e insanguinata».
Non si tratta di un’azione politica. E anche se «la profezia cristiana si incarna in tante azioni politiche e sociali, ma il compito dei Vescovi e dei Pastori in generale non è questo. È quello dell’annuncio della Parola per risvegliare le coscienze, per denunciare il male, per rincuorare coloro che sono affranti e senza speranza. È un annuncio fatto non solo di parole, ma di vicinanza e testimonianza». Vicinanza innanzitutto ai preti, per lavorare insieme in forma sinodale. E testimonianza «perché i Pastori devono essere credibili per primi e in tutto, e in particolare nel coltivare la comunione, nella vita morale e nell’amministrazione dei beni». Francesco indica, tra i testimoni, monsignor Christophe Munzihirwa, «pastore coraggioso e voce profetica», conosciuto anche come il Romero d’Africa, «che ha custodito il suo popolo offrendo la vita. Il giorno prima di morire lanciò a tutti un messaggio dicendo: “In questi giorni che cosa possiamo ancora fare? Restiamo saldi nella fede. Abbiamo fiducia che Dio non ci abbandonerà e che da qualche parte sorgerà per noi un piccolo bagliore di speranza. Dio non ci abbandonerà se noi ci impegniamo a rispettare la vita dei nostri vicini, a qualsiasi etnia essi appartengano”». E, oltre al vescovo ucciso a Bukavu, il Papa indica anche, come testimone, il cardinale Laurent Monsengwo Pasinya, morto nel 2021. Guardando a queste figure coraggiose Francesco chiede ai vescovi di non aver «timore di essere profeti di speranza per il popolo, voci concordi della consolazione del Signore, testimoni e annunciatori gioiosi del Vangelo, apostoli di giustizia, samaritani di solidarietà: testimoni di misericordia e di riconciliazione in mezzo a violenze scatenate non solo dallo sfruttamento delle risorse e da conflitti etnici e tribali, ma anche e soprattutto dalla forza oscura del maligno, nemico di Dio e dell’uomo. Però, non scoraggiatevi mai: il Crocifisso è risorto, Gesù vince, anzi ha già vinto il mondo». Chiede loro di essere misercirodiosi,a nche nelle confessioni, di sguire il codice, ma di perdonare, di rischiare nell amisercirodia. e poi li incoraggia anche pensando al prossimo Congresso eucaristico nazionale che si svolgerà a giugno a Lubumbashi, li ringrazia per la loro pazienza - «avete aspettato quasi un anno e avete dovuta lavorare due volte, perché la prima volta la visita è stata annullata, ma so che siete misericordiosi con il Papa!» - e chiede di «pregare per me, perché questo ufficio è un po’ difficile».