Lei è italiano come noi: non ci sarà modo di incontrarla, prima o poi, come vescovo di una diocesi italiana?
«A Gerusalemme ho vissuto tutta la mia vita, sin da quando sono diventato sacerdote nel 1990. “Qui abito perché l’ho desiderato”, come dice il Salmo. Mi vedo nelle mani di Dio anche negli anni che verranno. È Lui che mi ha condotto qui e Lui deciderà come vorrà».
Il mondo vive giorni bui come la notte del Getsemani, dilaniato da guerre che nessuno può vincere e da terremoti devastanti come quello che ha colpito Turchia e Siria. Anche a Gerusalemme, città della pace, sembra dominare la tensione: come state vivendo questi tempi?
«Qui la tensione purtroppo è di casa e, come accade dovunque, finché ci sono ingiustizie non si affievolirà. È anche vero che ora c’è un’escalation della conflittualità, ma questo non cambia nella sostanza il modo in cui noi cristiani siamo chiamati a vivere ogni difficoltà. È quello che cerchiamo di fare, in particolare come Chiesa di Gerusalemme. E cioè: non restando preda dell’angoscia per un futuro che non è nelle nostre mani, né di rancori per un passato che può essere guarito solo con il perdono, e vivendo il presente con la fiducia in un Padre che, nonostante le apparenze, come ha fatto con Gesù sulla croce, non abbandona i suoi figli, ma dona loro la forza di credere che il bene seminato e raccolto non andrà perso, perché l’orizzonte cui guardare è oltre i confini della storia».
Quella di Gerusalemme è comunque una Chiesa molto stimata, qui. Dipende dal fatto che siete gli eredi diretti della storia di Gesù e degli apostoli?
«Qui siamo amici di tutti perché, come san Francesco, non abbiamo alcun potere. Niente da difendere, tutto da donare. Costruiamo ponti che oltrepassano i muri. Siamo semi, perché è così che Gesù ha voluto fossero i suoi discepoli. Su una popolazione di 9 milioni di abitanti, in Israele i cristiani delle diverse confessioni sono circa 180 mila, meno del due per cento. E noi cattolici siamo una piccola parte. Ma qui è nato tutto, qui è iniziata la storia cristiana. Per questo è decisivo esserci e restare».
Venendo dall’Italia, colpisce la rigorosa suddivisione dei tempi e degli spazi tra i cristiani, nelle Basiliche della Natività e del Santo Sepolcro: eppure Gesù ha pregato perché fossimo come un solo cuore.
«Santo Sepolcro e Chiesa della Natività sono microcosmi speciali. Ogni confessione cristiana vorrebbe starci sempre, le regole dello Status Quo hanno attraversato i secoli e ancora oggi ci aiutano a poter fare tutti come Maria di Magdala: avere un tempo di bellezza in cui sedersi ad ascoltare ancora Gesù, per continuare a cercarlo dove è morto, sapendo che Lui non è più in nessuno di questi posti, ma ovunque. Però, nelle nostre comunità cristiane, cattolici e ortodossi si intersecano senza steccati. Ci sono cristiani ortodossi che vengono a Messa da noi, nelle parrocchie latine, e viceversa. Nessun sacerdote cattolico manderebbe mai via un fratello cristiano ortodosso. La gente non lo permetterebbe. Le persone sono più avanti dei nostri Status Quo».
Siamo nel tempo del Sinodo sulla sinodalità: lei come vede la Chiesa dei prossimi anni, di cosa abbiamo bisogno?
«Potrà essere, come succede già a Gerusalemme, una Chiesa con meno potere, meno strutture, meno persone. Ma sarà sempre la risposta a un bisogno essenziale delle donne e degli uomini di ogni tempo, in ogni luogo. Dovremo, però, essere capaci di tornare ai fondamentali dell’essere cristiano, ad ascoltare intensamente la Parola, a vivere i sacramenti con autenticità, ad agire con una carità generosa. Una cosa dal percorso del Sinodo la stiamo toccando con mano: le persone vogliono essere parte attiva di una comunità in cui ognuno porta il proprio contributo per un futuro migliore».
Il futuro è dei giovani: lei come li vede? Che parola ha la Chiesa per loro?
«Certamente essere giovane oggi è complesso. Ogni giorno si affrontano incomprensioni, fatiche, domande, solitudini cui né lo smartphone né internet sanno dare risposte autentiche. Ed è proprio in quei momenti, quando le domande si impongono e le risposte del mondo non risolvono, che noi adulti cristiani dobbiamo esserci. Se ci siamo, li ritroviamo, li riprendiamo, ci facciamo compagni di viaggio. Possiamo ancora affascinarli. Ma è importante avere qualcosa di serio da comunicare, avere un contenuto credibile dietro alle nostre parole. Se sei autentico, i giovani ti seguono. Meno teorie, e più esperienze».
Il Papa aspetta per quest’estate i giovani a Lisbona. Lei come consiglia ai suoi sacerdoti di rapportarsi coi giovani?
«Tre verbi. Accogliere. Ascoltare. Rispettare. Con limpida chiarezza. Dire sì a Gesù significa dire no a qualcos’altro. Essere accoglienti non vuol dire che va sempre bene tutto e il contrario di tutto. Bisogna saper dire i sì e anche i no. Saperli ascoltare, inoltre, è non meno importante. Anche quando non si capisce o non si condivide. Essere accolti e ascoltati è il primo passo per costruire una relazione seria. E rispettare i tempi di ciascuno. Tra poco, nella notte del Giovedì santo, noi cristiani latini andremo a pregare all’orto degli Ulivi. Lasciamoci incontrare ancora da Gesù: quella notte lui poteva dire no, poteva evitare la fine che lo attendeva. Ma poi scelse di dire sì alla volontà di Dio. E cambiò la storia dell’umanità».
Siamo vicini alla Pasqua, come ricordava poco fa: c’è una parola che sceglierebbe, quasi un titolo della sua omelia del Sabato santo, per ridare voce alla speranza di una vita che sa ancora risorgere da morte?
«Il titolo che userei in questo momento potrebbe essere: “Morendo ha distrutto la morte”. Troppo spesso dimentichiamo, anche noi cristiani, di essere nati per sempre e per una pienezza di gioia che, neppure la morte, con la Pasqua di Gesù, può più rubarci. Non siamo qui per sbaglio o per gioco, e neppure per soffrire o conquistarci un “premio”, come sembrano suggerire a volte molte voci, discordanti ma assordanti, della cosiddetta “cultura contemporanea”».