Fosse stato per lui, non avrebbe festeggiato un bel niente. «Mi piacciono solo le celebrazioni degli altri. E poi non vorrei che i miei 80 anni mettessero paura a chi magari sta pensando di darmi un nuovo lavoro. Io mi sento in perfetta efficienza». Ma poi Pippo Baudo è stato travolto dall’affetto della gente, «dalla casalinga all’intellettuale», puntualizza, e così alla fine qualche eccezione, come questa con Famiglia Cristiana, l’ha fatta.
Il critico Aldo Grasso ha scritto sul Corriere della Sera che la sua esperienza potrebbe essere ancora molto utile alla Rai, anche solo dietro le quinte. Concorda?
«Sì, e l’ho ringraziato per questo. L’esperienza è un magazzino di idee che non vanno disperse. Ripeto, se arrivasse una bella proposta, in campo o fuori campo, io sono disponibile».
Ci permetta di dubitare che un animale da palcoscenico come lei si accontenterebbe di rientrare solo fuori campo...
«È vero, magari limiterei i miei interventi, ma vorrei tornare in onda».
Ritiene che la Rai sia stata un po’ ingrata verso di lei?
«Più che di ingratitudine, parlerei di dimenticanza, che è anche umano che ci sia. Però negli ultimi giorni ho ricevuto numerosi attestati di stima e di affetto da parte dei dirigenti. Mi sembra che si sia risvegliato l’interesse nei miei confronti».
In questo periodo in cui è lontano dai riflettori, come trascorre le sue giornate?
«Leggo molto, frequento gli amici e guardo molta televisione. La guardo e prendo appunti. Questo è un mestiere in continua evoluzione e se non ti aggiorni rischi di restare sempre a bordo campo. Io invece voglio entrare e fare gol».
C’è un filo conduttore nei suoi appunti?
«La Rai deve recuperare il suo ruolo di guida: con tutto il rispetto, non deve assomigliare a Mediaset, a Sky e alle altre Tv commerciali. Deve avere un suo marchio di fabbrica che si traduce in questo: i suoi programmi devono essere nazionali e popolari, nel senso che devono essere capiti da tutti e possedere un sottofondo culturale».
Anche nell’intrattenimento?
«Soprattutto nell’intrattenimento. Perché un programma dedicato alla storia o all’arte, per quanto ben fatto, non riuscirà mai a raggiungere un pubblico così vasto come un varietà».
È la vecchia lezione della Rai di Ettore Bernabei...
«Io sono nato con Bernabei. Fu lui che fece spostare Settevoci, che andava in onda alle 18, a mezzogiorno per lanciare il telegiornale dell’una e mezza. Un giorno mi fece chiamare per comunicarmi questa decisione. Gli feci presente che in questo modo avrebbe decretato la morte del programma e lui, in toscano, replicò: “O Baudo, ma se io non ci metto uno come te, il telegiornale come faccio a lanciarlo?”. Aveva ragione lui».
Settevoci fu il programma che fece decollare la sua carriera. Ma il suo debutto avvenne con Guida degli emigranti. Ce lo ricorda?
«Fu un programma essenziale per me. Siccome sono laureato in Diritto del lavoro, il direttore del telegiornale mi chiese di realizzare dei servizi all’estero per raccontare le nostre comunità di emigranti. Così girai dall’Africa al Belgio. Fu un’esperienza fortissima perché anch’io ero un emigrante. A Marcinelle, dove ci fu la strage degli italiani nella miniera, conobbi il padre del futuro cantante Adamo. Mi disse: “Mio figlio non dovrà mai fare questo lavoro”. Io mi calai dentro il pozzo dei minatori con la telecamera e capii la vita d’inferno che facevano».
Proseguendo nell’album della sua carriera, c’è il celebre sketch del 1967 con Mina che canta con i “quattro moschettieri” della Tv italiana: lei, Mike Bongiorno, Corrado ed Enzo Tortora. A chi era più legato?
«Umanamente ero più legato a Mike. In realtà, in quel quartetto c’erano tre grandi e un pivellino che aveva appena iniziato. Quando arrivai in via Teulada allo Studio 1 ero intimidito dalla loro presenza. Mike mi venne subito incontro e mi fece sentire a mio agio. Ma anche Enzo fu molto carino».
In seguito, lanciò tantissimi talenti. Di chi va più orgoglioso?
«Non mi va di fare una classifica perché è vero che sono tanti, e tutti importanti. Pensiamo a Heather Parisi, a Lorella Cuccarini, a Beppe Grillo».
A proposito di Grillo. Che effetto le fa vederlo a capo di un movimento politico?
«Beppe con me si comporta sempre da amico, non da capo partito. Per il mio compleanno mi ha chiamato e abbiamo parlato soltanto di cose “nostre”, senza politica di mezzo. Di recente sono stato a vedere il suo spettacolo al Teatro Brancaccio di Roma. Nella prima parte, ha praticamente parlato soltanto di noi due. E la gente si è divertita tanto».
La seconda parte, quella più politica, è stata meno divertente?
«Ma no. Io capisco le sue idee, l’impegno sincero che ci mette. Però per me Beppe rimane il primo Beppe».
Una volta disse che essere democristiani non significa appartenere a un partito, ma è un modo di intendere la vita. Cosa significa?
«Significa essere democratici, cioè sempre aperti ad ascoltare le idee degli altri, secondo il principio illuministico di Voltaire. La Democrazia cristiana era un partito di centro, composito, che racchiudeva al suo interno un po’ tutte le esigenze del Paese».
Una curiosità: nella sua parlata non si nota la minima inflessione siciliana. Sa il dialetto?
«L’ho dimenticato completamente, anche se lo capisco benissimo. Da ragazzo, siccome volevo fare questo mestiere, ascoltavo molto la radio, perché gli speaker di allora avevano una dizione perfetta. Così non frequentai nessun corso di dizione e quando mi presentai per il provino in Rai, l’esaminatore, il grande regista Antonello Falqui, mi beccò subito: “Ma voi siciliani non sapete parlare bene l’italiano”. Io lo sfidai a mettermi alla prova. E lui: “Si immagini di essere a Sanremo e di dover presentare Mina”. Io sapevo tutto su Sanremo e tutto su Mina e feci una bella presentazione, con una dizione perfetta. E infatti mi presero».
Non parla in dialetto nemmeno quando torna nella sua Militello?
«No, perché quando ci provo i miei compaesani si sbellicano dalle risate».
Se non avesse fatto il presentatore, che mestiere le sarebbe piaciuto?
«Il direttore d’orchestra. Ha una partitura in mano, davanti a sé 50-60 musicisti e deve fare in modo che i violini si accordino con i violoncelli, le trombe con i tromboni fino a creare un unico insieme armonioso. Ogni volta è una magia che si realizza».
Non ha sublimato questo sogno nel suo lavoro? Lei non si è mai limitato a presentare, ma ha sempre voluto un controllo totale su tutto, dalle scenografie, alla musica, agli ospiti...
«È così. Io ho sempre “diretto” i miei programmi, perché mi piace assumermi le responsabilità: se lo spettacolo non è bello, la colpa è mia; se è bello, il merito è anche mio».
Qual è il più grande desiderio di Pippo Baudo?
«Sarebbe bello se gli anni che mi restano avessero una cadenza più lenta: tre anni per ogni anno. E nel frattempo, se dovesse capitarmi l’occasione per tornare in onda, lo farei davvero con molto piacere. Ho tante idee nel cassetto».
(Pubblicato il 06/07/2016, modificato il 07/06/2019)